Il palazzo abbaziale di Loreto di Mercogliano

La bibliografia sulla Congregazione monastica verginiana di Montevergine, sul santuario mariano del Monte Partenio, e sul palazzo abbaziale di Loreto di Mercogliano è molto vasta. Qui citiamo, non sempre testualmente, dal volume postumo di padre Placido Mario Tropeano, Palazzo abbaziale di Loreto : guida storico artistica (Montevergine, Edizioni Padri Benedettini, 2008).

«Il settecentesco palazzo abbaziale di Loreto rientra negli itinerari turistici della regione Campania. Ubicato al centro del territorio regionale, poco distante dall’uscita di Avellino Ovest dell’autostrada Napoli-Bari, rimane di facile accesso per le altre province della regione mediante raccordi con Benevento, Caserta e Salerno.
L’attuale palazzo sostituisce un complesso monastico più antico legato alla fondazione del Santuario. Nei primi decenni del secolo XII, su una cima del monte Partenio a 1200 metri di altitudine, arrivò un pellegrino proveniente dal Nord, Guglielmo da Vercelli, ed avviò la nascita di una nuova famiglia religiosa, entrata nella storia della chiesa nel 1126 col nome di Eremiti di Montevergine, in seguito meglio conosciuta col nome di Congregazione Verginiana. La tradizione vuole che lo stesso Salvatore, in una apparizione a San Guglielmo, avrebbe imposto di costruire sulla cima detta vergine, per non essere stata ancora raggiunta e contaminata da strutture fatte dalle mani dell’uomo, una chiesa dedicata a Maria sua madre, e di osservare in quel luogo un regime di stretta osservanza quaresimale, escludendo dalla mensa carni, latticini ed uova. Si trattava di un aspetto penitenziale assai diffuso nella spiritualità monastica del medioevo, ma sull’alto monte le difficoltà d’accesso e la rigidità del clima rendevano quasi impossibile prestare un’adeguata assistenza sanitaria ai deboli, agli anziani e agli infermi. Di qui la necessità di creare alle falde del monte una infermeria dove trasferire i bisognosi.
La scelta cadde su una località della valle di Mercogliano, detta Orrita in seguito volgarizzatasi in Loreto, dove nel 1138 il conte Enrico di Sarno aveva donato a Montevergine un mulino e due orti nei pressi della chiesa di San Basilio e nel 1167 il conte di Avellino Ruggiero de Aquila aveva esentato quei beni da ogni prestazione feudale e concesso ai monaci la facoltà di attingere dal pubblico acquedotto l’acqua necessaria al funzionamento del mulino e all’irrigazione degli orti.
La presenza del monaco nella località Orrita, per la buona gestione del mulino e degli orti, suggerì ai patroni della chiesa di San Basilio di affidarne la gestione e poi di passarne la proprietà all’abbazia di Montevergine che, intorno a quella chiesa, fece sorgere l’infermeria monastica, gestita da pochi monaci sotto la guida di un priore.
Quando poi nel 1195 l’imperatore svevo Enrico VI passò nelle mani degli abati di Montevergine il feudo di Mercogliano e nel 1261 il papa Alessandro IV vi aggiunse la piena giurisdizione ecclesiastica, l’infermeria, pur conservando il ruolo istituzionale di casa di cura per i religiosi infermi, divenne anche sede della curia abbaziale  per l’amministrazione dei poteri civili ed ecclesiastici acquisiti.
Prestigio feudale e dignità quasi episcopale spinsero gli abati ad ingrandire ed abbellire l’infermeria fino a raggiungere il magnifico complesso edilizio, descritto dal Giordano nelle Croniche di Montevergine, edite nel 1648. Egli accenna alla necessità di rendere decoroso quel luogo dove “abita il Padre generale della Religione … si perché il luogo sta prossimo a quei paesi, e popoli così secolari, come ecclesiastici, nelli quali come ordinario esercita la sua giurisdizione temporale, e spirituale, sì perché sta vicino a Montevergine sua Badia, ove per ordinario va a fare le sue funtioni Pontificali nelle feste, e giorni solenni dell’anno”. Senza entrare nei particolari, il Giordano parla di “due deliziosi giardini murati e pieni di piante di diversi frutti”, di una “fabbrica molto comoda”, per i circa 40 religiosi che vi risiedono e di “una Spezieria molto fornita, e celebre, nella quale però non solo si servono l’ammalati monaci, ma anco vi concorrono quasi tutti quei paesi vicini, per le robbe buone e fresche, che tiene”.
Di questo edificio non è rimasta traccia alcuna perché, reso inagibile dal violento terremoto del novembre 1732, i monaci decisero di riscostruirlo di sana pianta in posizione più elevata nella vicina località Vesta, dando così origine al Nuovo Loreto, meglio conosciuto col nome di Palazzo Abbaziale di Loreto, alla cui conservazione siamo preposti ed alla cui conoscenza desideriamo guidare gli amanti dei beni culturali della nazione».

ORIGINE DEL NOME
«Il toponimo Besta et Orrita compare per la prima volta in un documento del gennaio 1138 (Codice Diplomatico Verginiano, III, p. 190) e sta a designare, senza alcuna distinzione, un latifondo ubicato nella valle di Mercogliano, di cui facevano parte due appezzamenti di terreno donati a Montevergine dal conte Enrico di Sarno. Nel Seicento l’abate Giordano (Croniche, p. 43-47) separò i due termini ponendo Orrita ad occidente, dove da oltre cinque secoli era stata costruita l’infermeria monastica col nome di Loreto, e Besta ad oriente, dove un secolo più tardi sarà ricostruita la stessa infermeria in seguito al sisma del novembre 1732. Inoltre, per dare un retroterra classico alle due località, fantasticò l’esistenza del boschetto di lauri in onore del dio Apollo per Orrita e il ritrovamento dei ruderi di un tempio dedicato alla dea Vesta per Besta […] La leggendaria tesi del Giordano piacque ai monaci, che nel Settecento fecero erigere, nella località Vesta, una stele in pietra bianca, sormontata da una croce, ancora oggi nota col nome di Croce di Vesta; fu accettata nel 1777 dallo Jacuzio (Brevilogio, p. 11) e largamente diffusa nel 1860 dallo Zigarelli (Viaggio storico-artistico, p. 11), e ancor oggi si sente spesso ripetere da quanti credono di fare sfoggio di cultura classica. Noi, più semplicemente, crediamo che quel toponimo ripeta il nome del proprietario del fondo, Maraldo Orrita, per poi corrompersi progressivamente in Orrito, O Rito, Lo Rito, ed infine fissarsi nel secolo XVII in Loreto, quasi per un ideale collegamento con la Santa Casa di Loreto d’Ancona, messo in evidenza quando i monaci ordinarono al pittore Paolo De Maio una tela raffigurante il trasporto della casa di Nazaret, da porre sull’altare della cappella del Nuovo Loreto […]».

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PROGETTAZIONE
«A distanza di cinque mesi dal terremoto, nella terza domenica dopo Pasqua, che in quell’anno 1733 cadde il 2 aprile, nel Santuario di Montevergine fu celebrato il capitolo generale della Congregazione e fu presentato all’attenzione dei capitolari il problema della ricostruzione dell’infermeria e della casa generalizia. Di fronte alla spesa prevista dai tecnici di oltre 4.000 ducati per la riparazione e la ristrutturazione del vecchio fabbricato, l’assemblea all’unanimità, abate Angelo Maria Federici, decise di ricostruirlo di sana pianta, più comodo e più bello, in altro sito e di affidarne la progettazione all’architetto “Domenico Antonio Vaccaro che stimasi il primo dela città di Napoli” […] Il Vaccaro, importante esponente del tardo barocco napoletano, aveva già lavorato per i monaci di Montevergine nella decorazione della volta della chiesa del Santuario e nella pittura di alcune scene della vita di San Guglielmo, per cui accettò ben volentieri il nuovo incarico e si affrettò a portarsi sul posto per un accurato studio idrogeologico dei tre terreni dove, secondo i monaci, sarebbe potuto sorgere il nuovo fabbricato […] A distanza di qualche mese, il Vaccaro ritornò sul posto, portando i disegni esecutivi e un modello in legno, dei quali non esiste più traccia e che incontrarono il plauso della comunità monastica. L’architetto, dal podere monastico a Vesta, fece staccare e recintare un lotto a forma rettangolare di cira 16.000 mq; al centro del rettangolo, leggermente spostato a sud impiantò su una superficie di mq 4.400 il Nuovo Loreto, previsto su pianta ottagonale non regolare con tre lati di base rovesciati all’interno, in modo da creare due corridoi di accesso al maestoso maschio centrale, destinato ad abitazione dell’abate, vescovo e barone; dedicò il restante territorio anteriore a parco e quello posteriore a orto».

PRIME CRITICHE AL PROGETTO
«Il 5 maggio 1733 si diede inizio ai lavori per la costruzione del Nuovo Loreto, ponendo le maestranze sotto il controllo del fratello laico “Antonio da Valle espertissimo in tutto, e specialmente nell’arte di Capo Maestro muratore”. Quando tutto sembrava procedere secondo i piani prestabiliti, la visita di un non meglio specificato “personaggio di riguardo” secondo noi rispondente al nome dell’ing. Michelangelo Di Blasio, gettò lo scompiglio tra i monaci, sostenendo che il progetto del Vaccaro era troppo dispendioso e difettoso […] La risposta del Vaccaro non si fece attendere, dopo soli tre giorni, il 19 ottobre 1734, fece recapitare all’abate Federici una lettera nella quale forniva una piccata ma esauriente risposta per confutare le critiche ricevute».

SOSPENSIONE DEI LAVORI
«Il generalato dell’abate Isidoro De Angelis -succeduto al Federici dal 1736- si aprì sotto cattivi auspici per la fabbrica del Nuovo Loreto, a causa di un ricorso posto dai comuni di Mercogliano e di Ospedaletto contro la realizzazione dell’opera. In prima istanza il tribunale di Montefusco condannò i monaci e fece apporre i sigilli al cantiere, che rimase inattivo per i due esercizi finanziari 1737-38 e 1738-39; in appello, il tribunale di Napoli rovesciò la sentenza e permise che riprendessero i lavori, perché i monaci avevo sostenuto che la fabbrica non era da considerarsi nuova, ma solo una sostituzione della precedente, resa inagibile dal terremoto».

MICHELANGELO DI BLASIO
«Nei primi mesi del 1741 arrivò a Loreto l’investigatore regio nella persona dell’ing. Michelangelo Di Blasio, da noi già identificato col “personaggio di riguardo”, che per primo aveva criticato il progetto del Vaccaro. Egli trovò il problema del ricorso dei paesi di Mercogliano e Ospedaletto contro la Congregazione già avviato a soluzione per cui stilò una relazione assai favorevole ai monaci. Non sappiamo se abbia avuto uno scambio di idee con l’architetto Vaccaro, come ogni ragione avrebbe consigliato, perché quest’ultimo nel frattempo aveva ricevuto dai monaci l’incarico di ricostruire la chiesa del monastero di San Guglielmo al Goleto (a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino) e si avviava a chiudere la sua attività artistica causa malattia e successiva morte, avvenuta nel giugno del 1745. La forza di questi avvenimenti comportò la quasi automatica successione dell’ing. Di Blasio alla direzione dei lavori del Nuovo Loreto. L’intervento di Di Blasio non fu di poco conto: abolì il maschio centrale, facendo posto al grande cortile interno; ribaltò i tre lati di base, consentendo la continuità dei corridoi e prevedendo al pian terreno l’atrio d’ingresso, affiancato dalla portineria e dalla farmacia e al primo piano il grande salone delle riunioni e gli adiacenti due appartamenti riservati all’abate generale e agli ospiti importanti. Dell’ing. Di Blasio si perdono le tracce dopo la sua ultima visita al cantiere, ormai in avanzata fase di completamento, durante l’esercizio finanziario del 1748-49».

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VISITA DEL PALAZZO
Il palazzo abbaziale di Loreto è ancora una casa di clausura, dunque l’accesso al suo interno è per lo più interdetto, salvo che in occasioni particolari in concomitanza con eventi organizzati dalla Congregazione di Montevergine. Al piano terra si trova l’ingresso con la volta affrescata nel 1750 da Antonio Vecchione, la portineria e il parlatorio (ora Sala degli stemmi), la cui volta affrescata si deve all’architetto avellinese Giuseppe De Luca. Nel parlatorio  merita di essere ricordata la tela di autore ignoto raffigurante la consegna della Regola di San Benedetto a San Guglielmo e quella del pittore Onofrio Avellino, datata al 1732, raffigurante il papa Clemente XII nell’atto di concedere all’abate generale della Congregazione Ramiro Girardi la facoltà di amministrare ai sudditi il sacramento della cresima e di benedire gli abati di nuova elezione nelle case dipendenti.
Sempre al piano terra troviamo la farmacia che, nella continuità della spezieria del Vecchio Loreto, era a servizio non solo dei monaci ma anche degli abitanti delle vicine contrade. Per l’arredamento furono recuperate dalla spezieria del Vecchio Loreto diverse suppellettili; durante l’esercizio finanziario 1750-51 gli scaffali furono riempiti da 364 vasi in ceramica, quasi certamente opera della celebre fabbrica napoletana del Giustiniani di Capodimonte, recanti nella faccia a vista lo stemma dell’abbazia. In una cornice ottagonale sul soffitto è ospitato un quadro risalente al 1761 del pittore Giacomo Baratta raffigurante la guarigione di Tobia dalla cecità. Nel Nuovo Loreto la farmacia funzionava non più con un carattere esclusivamente privatistico e caritativo, ma come un esercizio pubblico e commerciale sotto il controllo dell’autortià sanitaria civile. Successivamente fu affidata a farmacisti esterni, fino al 1901, quando fu defintivamente chiusa al pubblico.
Il giardino interno, non previsto dal progetto del Vaccaro, diventa parte integrante della revisione di Di Blasio. La pianta ottagonale, con lati rettilinei ed altri incurvati, è delimitata dalla murazione interna del fabbricato mentre la superficie di oltre 3.000 mq è circondata da un lastricato di 2,50 m ed è divisa in 4 aiuole da un largo vialone a croce latina; le singole aiuole sono ricche di piante esotiche e di fiori. All’incrocio dei due rami del vialone nel 1848 l’abate Raffaele De Cesare fece scavare una vasca, profonda 4 m e con una superficie di 45 mq. Sulla copertura del lato settentrionale emergono la torretta dell’orologio e due lucernari ottagonali, che riproducono la sagoma del retrostante monte Partenio.
Due imponenti scaloni partono dall’atrio principale del palazzo e conducono al corridoio continuo del primo piano, dove si incontra la Galleria degli Abati, venticinque tele a olio, rappresentanti gli abati della Congregazione, restaurate nel 2007 e 2008 dalla Ditta Pheliana del prof. Martino Del Mastro di Monteforte Irpino con la collaborazione di Antonietta Petruzziello. Nel corridorio continuo del primo piano insistono 44 porte, di cui due immettono nei due appartamenti nobili affiancati al salone. Il salone settecentesco, che era in origine la sala capitolare, è preceduto da una specie di vestibolo ottenuto chiudendo con porte vetrate il tratto adiacente del corridoio continuo e utilizzando il pavimento pensile tra la doppia rampa delle scale divergenti. Su un rivestimento di damasco rosso alle pareti si trovano tre arazzi di scuola fiamminga cinquecenteschi restaurati nel 1952. Nell’appartamento abbaziale annesso rimangono di particolare interesse storico e artistico due colonne a segrete del secolo XIX con lo stemma dell’abate De Cesare, i bozzetti dei dipinti di Vincenzo Volpe predisposti per la cappella della Madonna di Montevergine, la copia del quadro della Madonna realizzata da Gaetano Giannini per l’altare incassato in un armadio a muro dello studio.
Dopo il salone, si incontra l’archivio diocesano; qui il  pavimento maiolicato con coloratissimo fregio centrale arrivò da Napoli, forse dalle stesse fabbriche del Giustiniani come i vasi della farmacia; il monaco fra’ Mariano da Castellammare di Stabia lavorò le scaffalature in legno pregiato di radica di noce; i maestri napoletani Pietro e Andrea Russo e Leonardo Valente provvidero alla doratura dei fregi e dei capitelli e dello stemma dell’abate Nicola Maria Letizia; il pittore Antonio Vecchione decorò il soffitto e le pareti non interessate dalle scaffalature. Nell’archivio sono custoditi i documenti dei paesi che erano sotto la giurisdizione di Montevergine, dal XIV fino a tutto il XX secolo.
Proseguendo in senso orario, sulla parete sinistra del corridoio è ubicata la porta lignea della cappella affiancata da una campanella bronzea a richiamo dell’orario delle preghiere dei religiosi di notte e di giorno. Il vano della cappella su pianta esagonale irregolare è illuminato da due finestre sagomate, aperte sui lati affiancati all’altare, che recano le lettere C[rux] S[ancti] P[atri] B[enedicti]. Al lato di fondo è addossato il complesso marmoreo, progettato dall’ing. Giuseppe Di Lello, composto dalla cornice, per la tela del pittore Paolo De Maio e dalla base dell’altare eseguita dal marmoraro Antonio Di Lucca. Il soggetto del dipinto è legato alla tradizione popolare formatasi intorno alle origini del famoso santuario della Santa Casa di Loreto di Ancona, eretto sulle poche pietre donate dal principe Filippo di Taranto e portate in dote a Ithamar Angeli Comneno nello sposare il principe angioino. Sulla casa la Vergine Maria siede con in grembo il figlio, osannata da quattro angeli e illuminata da luce proveniente, dall’alto, dalla colomba simbolica dello Spirito Santo. Sui quattro lati centrali della cappella, a forma di esagono, si sviluppa il coro monastico in legno e cuoio, realizzato sotto la direzione artistica dei fratelli Geppino e Mario Volpe e inaugurato il 29 giugno 1930 dall’abate Giuseppe Ramiro Marcone, cui si deve la ristrutturazione della cappella e il cui stemma personale compare nella decorazione del soffitto, nello schienale dello stallo destinato alla prima dignità monastica e al centro del pavimento. Lungo il lato nord del palazzo il corridoio continuo cammina tra due corpi di fabbrica, interrotti al centro da due rami dello stesso corridoio, che terminano con due balconcini. Sulle pareti del ramo sinistro due porte dirimpettaie di uguali dimensioni immettono nel refettorio e nella cucina. Il salone del refettorio, a pianta rettangolare e a volta sopraelevata a padiglione, prende luce da tre finestre allungate sporgenti sull’orto dietro il fabbricato. Sul fondo una massiccia cornice, sagomata e dorata, racchiude la scena di Abramo che ospita e rifocilla i tre angeli. sulla base, spostata verso sinistra, il pittore ha tracciato la sigla del suo nome JMP e la data del manufatto, 1753 (secondo Mongelli potrebbe trattarsi di Giuseppe Montesano, ma quest’attribuzione non ha trovato finora conferma).torna a inizio pagina