L’Archivio

L’Archivio storico di Montevergine è ubicato, per quanto riguarda la parte storica, al secondo piano dell’ala destinata alla biblioteca ed all’interno del monastero, nella parte riservata ai religiosi, dove è presente  la sezione diocesana.
La sua origine è antica poiché il suo primo fondo è costituito proprio da quei documenti che dimostrano giuridicamente la fondazione dell’abbazia. I monaci custodirono gelosamente nella casa madre di Montevergine tutti gli incartamenti a loro pervenuti per varie ragioni, non solo quelli che provavano le loro proprietà e i loro diritti su persone e luoghi, ma tutto ciò che fu affidato per essere custodito in luogo sicuro. Con il trascorrere del tempo, man mano che i documenti si accrescevano, si pensò ad un locale adibito esclusivamente ad archivio, al quale i verginiani dedicarono grandi cure. Il periodo della commenda, tra l’inizio del secolo XV e la fine del XVI, fu particolarmente negativo poiché numerosi furono i furti e le sottrazioni nella documentazione archivistica. Nel 1586 una disposizione dei Capitoli Generali della Congregazione verginiana ordinava a tutti i priori delle case dipendenti da Montevergine, nel tempo di due mesi, di inviare un inventario di tutti i beni mobili e stabili dei singoli monasteri; di tale documentazione doveva essere redatta una copia autentica, da conservarsi nella cosiddetta  «cascia delle scritture». In essa si dovevano sistemare anche tutti gli incartamenti del monastero, come i registri di amministrazione, degli introiti ed esiti, gli strumenti notarili, ect. Si predisponeva inoltre che nessun monaco potesse appropriarsi di documenti riguardanti la congregazione per non incorrere in gravi sanzioni inflittegli dal superiore generale. Queste norme, unite ad altre più specifiche, costituirono un’anticipazione di quella che sarà la vera e propria legislazione archivistica presente nelle Costituzioni dei verginiani del 1598.
Con esse si raccomandava agli abati di conservare le carte con particolare cura poiché importantissime e di grande utilità per la famiglia monastica. Per l’archivio della casa madre si prevedevano norme speciali: il locale doveva essere fornito di buone serrature con chiavi ed affidato ad un monaco archivista che si doveva prendere cura di tutti i documenti, conservando le pergamene appese negli armadi per non farle rosicchiare dai topi. Si ordinava inoltre che tutto ciò che veniva stabilito nelle riunioni dei Capitoli Generali della Congregazione doveva essere scritto ed annotato (attualmente tali registri ci permettono di ricostruire non solo la storia della congregazione di Montevergine, ma anche quella delle case dipendenti informandoci sulla dislocazione dei monaci, sui nuovi ordinamenti, lavori, ristrutturazioni, ecc.).

Un cronista verginiano, D. Amato Mastrullo, nella sua opera intitolata Montevergine Sagro del 1663, ci descrive l’archivio come  «una bellissima stanza grande, larga e lunga nella quale d’intorno si vedono le spalliere di legno ben lavorate, con due belli ordini di cassette, dentro le quali vi si conservano i Privilegij Regij e Pontificij (…) ad ogni Cassetta vi sta la sua chiave col’iscrittione di quel Monasterio, del quale vi si conservano le sue scritture».

La documentazione archivistica, sistemata nei pressi dell’appartamento dell’abate al santuario, fu studiata ampiamente nel secolo XVIII.  Il verginiano P. Gaetano Giannuzzi fu il primo a sistemare la parte pergamenacea dell’archivio compilando due grossi registri nei quali seguì un ordine topografico–cronologico. Rimaneva però fuori da tale ordinamento il materiale cartaceo della curia dell’abbazia conservato nella casa di Loreto ed il materiale degli archivi delle case dipendenti di Montevergine.
Nel 1724 divenne papa, con il nome di Benedetto XIII, il cardinale Vincenzo Orsini ed a lui si deve l’importante costituzione Maxima vigilantia che lasciò un’impronta particolare nella storia degli archivi. Essa stabiliva norme precise per la custodia dei documenti, delle chiese, dei monasteri, dei collegi e di qualsiasi altro istituto regolare. Per ciò che riguarda Montevergine diede disposizioni minute, annunciate già precedentemente quando era cardinale nelle sue visite pastorali al monastero; l’abbazia avrebbe dovuto provvedere anche alla costituzione degli archivi per ogni monastero. Si pensò perciò ad un nuovo ordinamento archivistico alla luce di queste ulteriori disposizioni papali. Il compito fu affidato al P. Carlo Maria Cangiano, il quale distribuì il materiale in 140 volumi corredati da 4 grossi volumi manoscritti di indici.
Tra il 1760-1763 l’abate Letizia fece trasportare l’archivio da Montevergine a Loreto, ma la sala ad esso destinata fu ben presto occupata da tutto il materiale proveniente dalla casa madre e da ciò che si conservava nel vecchio palazzo di Loreto che si era salvato dal terremoto del 1732. Il padre Bernardino Izzi aggiornò la parte monastica con gli incrementi avutosi dopo il 1750 e sistemò la parte diocesana.
Ancora oggi la vecchia sala dell’archivio si presenta così com’era alla costruzione, con scaffalature in radica d’olivo e con pareti affrescate dell’epoca; al centro dell’ambiente si può osservare una grande lapide in marmo, dedicata all’abate Letizia che reca la data del 1750 (essa non si riferisce all’archivio che si conservava a Montevergine, che solo nel 1761 fu trasportato a Loreto, ma a quello diocesano che ha avuto sede sempre nella casa-infermeria). Nel 1807 con la soppressione degli ordini religiosi nel Regno di Napoli,  confluivano nei locali dell’archivio di Montevergine il patrimonio archivistico dei monasteri dipendenti, ed i documenti degli istituti religiosi soppressi come i Domenicani di Avellino, Atripalda, Gesualdo, gli Agostiniani di Avellino, i Celestini di Gesualdo. Successivamente la legge organica degli archivi emanata nel 1818 sotto il governo dei Borboni, considerava gli Archivi di Cava, Montecassino e Montevergine sezioni dipendenti del grande Archivio di Stato di Napoli, alla cui conservazione ed ordinamento furono addetti un vice-archivario ed un aiutante.
Nel 1831 il Soprintendente del Ministero dell’interno, Granito di Belmonte, in una sua visita ufficiale a Montevergine, manifestava il suo compiacimento circa le condizioni del materiale archivistico, al quale l’abate Guglielmo De Cesare pensava già di dare una sistemazione più idonea in un luogo più ampio. Ciò non fu però possibile, perché, poco dopo, con le leggi di soppressione delle corporazioni religiose del 1861, l’archivio subì la stessa sorte della  Biblioteca di Montevergine e l’anno successivo la sua documentazione fu trasferita presso il Grande Archivio di Napoli.
Si trattò di un atto illegale poiché non era stata abrogata la legge precedente del 1818 che considerava l’archivio di Montevergine come sezione staccata di Napoli (i due archivi di Montecassino e Cava, proprio in virtù di tale legislazione, furono conservati nelle loro abbazie, anche dopo la loro soppressione). Varie furono le proteste per il trasporto abusivo dell’archivio a Napoli; nel 1905 l’abate Corvaia presentò una formale istanza di restituzione al Ministero dell’Interno, facendo riferimento ad una serie di valide argomentazioni e ripromettendosi di seguire le vie giudiziarie qualora l’esito fosse stato negativo. Solo nel 1926 il materiale archivistico poté ritornare nella sua antica sede del palazzo abbaziale di Loreto.
A ricordo di tale felice avvenimento venne apposta nell’archivio, di fronte alla lapide settecentesca, un’altra nella quale si fa cenno anche all’abate Ramiro Marcone che tanto si adoperò a tale scopo.