Una piantina dell’antica Chiesa di Montevergine, disegnata da un monaco del secolo scorso

Date:
26 Marzo 2021

(di Paola de Conciliis)

Il fascicolo segnato con il numero 17 di una delle buste “miscellanee” dello scaffale 14 della sala dell’archivio, nella Biblioteca di Montevergine, riserva una piccola sorpresa.
Si tratta di fogli vergati a penna su carta a quadretti “commerciali”, in una grafia e con un inchiostro, blu e rosso, fatti salvi manierismi goticizzanti dei titoli, compatibili con gli anni 1925-1945; i fogli, decisamente malandati e riempiti di informazioni fino all’estremo limite dei bordi, a volte compromettendo la lettura, contengono due riproduzioni in scala della pianta della chiesa di Montevergine, come doveva presumibilmente presentarsi nel 1629, prima della “rovina”, ossia della caduta delle volte dell’ultima campata e del transetto, avvenuta il 2 agosto 1629, così come dettagliatamente narrato da P. Giovanni Mongelli nella sua Storia di Montevergine (IV, p. 454 e ss.)Piantina_Montevergine1629
Il padre verginiano autore dei fogli ci fornisce una sorta di firma, siglando in un angolo in basso a destra una delle due piante con le lettere D. Alf. OSB. Da uno studio incrociato della sua grafia con quelle di altro materiale documentario manoscritto conservato nell’archivio verginiano postunitario potrebbe emergere un’identificazione ipotetica del monaco.
Secondo l’intestazione dei fogli, che ripetono il medesimo impianto di disegno tecnico e didascalie distribuite sui lati con rimando, non sempre completo e chiaro, ai numeri e alle lettere in esso segnati, la disposizione architettonica e quella dell’arredo vogliono rappresentare la situazione all’altezza dell’anno 1628, o almeno all’inizio del 1629, prima che iniziassero i lavori di ampliamento e adeguamento al gusto moderno, nonché ai dettami tridentini, della chiesa di impianto medievale, sostanzialmente duecentesca, che potremmo chiamare “Montevergine Terza” , per la distinguerla da quella consacrata nel 1182 dall’abate Giovanni. Nel corso di questi lavori il coro ligneo del 1573 e altri arredi, tra cui il ciborio duecentesco che sovrastava l’altare maggiore e il tabernacolo marmoreo, erano già stati smontati prima del crollo, trovando poi collocazione in luoghi diversi nel corso dei secoli, a partire dal generalato di Giovan Giacomo Giordano che intraprese la ricostruzione, chiedendone il progetto all’architetto napoletano Giovan Giacomo Conforti. In realtà Conforti muore nel 1630, quindi non poté fornire che un’indicazione iniziale.
I fogli dichiarano in entrambi i casi che la ricostruzione “virtuale” della chiesa si basa sulle principali fonti edite e inedite conservate nell’archivio e nella biblioteca dell’abbazia, enumerate in ordine più o meno cronologico, ovvero il manoscritto di Vincenzo Verace, rivisto e pubblicato con il titolo Istoria dell’origine del sagratissimo luogo di Monteuergine da Tommaso Costo a Venezia nel 1591, il manoscritto di Ovidio De Luciis, datato al 1619, le Croniche di Montevergine dell’abate Giordano del 1649, nonché il Montevergine Sagro di Amato Mastrullo del 1663, oltre ai volumi dell’archivio nella sistemazione del padre Cangiani. Inoltre l’autore dichiara di aver seguito “altri dati d’edilizia”, ovvero probabilmente di aver preso con un rilievo, seppur “approssimativamente” le misure della chiesa antica, all’epoca ancora interamente in piedi, per poi stilare la pianta, che quindi tiene conto delle strutture esistenti; vi colloca i vari monumenti e altari descritti nella tradizione storica della congregazione, i cui resti frammentari, come ben sanno i frequentatori del santuario di Montevergine, sono parzialmente visibili, variamente ricomposti nell’attuale complesso ecclesiale e nelle sale del museo abbaziale. Seguendo le indicazioni dei suddetti scrittori, l’anonimo autore nomina le cappelle secondo i titoli acquisiti nell’ultima sistemazione, sostanzialmente mantenuti fino alla sua epoca.Piantina_Montevergine1629_1 Anche se, ad una prima occhiata, si capisce che la dimensione reale dei monumenti e degli altari, almeno in relazione ai pezzi superstiti, non è tenuta in conto nel disegno, così come la forma delle tre absidi varia da una piantina all’altra, quasi a dimostrare che una è una sorta di abbozzo per l’altra, redatta con maggiore cura nelle didascalie e anche nel descrivere il profilo dei pilastri e delle modanature, è evidente lo sforzo di restituire l’impianto della chiesa gotica.
L’interesse recente degli studi nei confronti degli arredi sacri delle grandi chiese degli ordini monastici, e con particolare riguardo alla disposizione dei monumenti funebri e delle cappelle a ridosso del coro che solitamente, come a Montevergine, occupava lo spazio della navata centrale, fa di questi fogli un possibile ampliamento della documentazione a supporto dei ricercatori.
Finora il testo base per la chiesa di Montevergine è l’articolo del padre Mongelli Montevergine nel Cinquecento. Da documenti inediti, del 1967, nel quale, attraverso l’esame di un manoscritto di Giovan Battista Bolvito (1541-1593), conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, e contenente, tra le altre cose, il resoconto di una visita dell’autore a Montevergine nel 1579, Mongelli ricostruiva con dovizia di particolari e dissertazioni storiche la genesi e la posizione degli arredi sacri e delle tombe nella chiesa, intessendo un continuo confronto tra il dettato del Bolvito, attendibile testimone oculare, e le fonti verginiane sopra citate, unendovi il confronto col manoscritto I sepolchri di Montevergine, del 1760, del padre Bernardino Izzi, archivario e storico verginiano della seconda metà del XVIII secolo (AMV, busta 167).
La piantina di sua creazione che pubblica nell’articolo è lontana dalla – almeno apparente – precisione dei fogli in questione, anche se su un punto appare più razionale la ricostruzione di Mongelli. Stando, infatti, alla narrazione dei lavori intrapresi poco prima del crollo dall’abate Milone nel 1627 (Mongelli, Storia di Montevergine, IV, p. 441 e ss.) lo sperone di roccia che impediva il prolungamento regolare dell’abside centrale verso ovest, in asse con le cappelle laterali della Schiodazione e dei Magi (cioè le antiche cappelle Vademonte-Lagonissa e di Capua), doveva essere alla fine del Cinquecento ancora integro, e l’altare maggiore ancora al centro della tribuna sormontato dal ciborio duecentesco e con gli amboni attestati all’altezza della quinta coppia di pilastri della nave centrale, semplicemente perché la sesta non era ancora stata staccata dal fondo (rettilineo?) della chiesa. Tuttavia la ricostruzione mongelliana non dà conto del sistema di copertura e sembra difficile che le due cappelle rettilinee laterali affondassero tanto profondamente nella montagna.
mongelli_piantaedidascaliaLa situazione in essere nelle due piante manoscritte della busta 10 mostra invece l’arretramento dell’altare maggiore col suo baldacchino alla nuova abside rettangolare aperta nello sperone della montagna, più in linea nelle dimensioni con le laterali e con quello che doveva essere l’effettiva profondità di tutte e tre. Ma al 1629 i lavori erano dunque già a buon punto e non era stato ancora rimosso il solo grande coro in noce, costruito nel 1573, per il quale effettivamente non c’era ancora posto nel vano centrale, che sarebbe stato scavato solo successivamente sotto l’abate Giordano. Il Mongelli stesso nella sua storia ci racconta come “l’imprevisto” crollo avvenne sotto il generalato dell’abate Pietro Danuscio, successore di Pio Milone, allorché lo smontaggio del coro e delle “catene” che lo ancoravano ai pilastri indebolì questi ultimi, così come gli scavi alle loro fondamenta per appianare i quattro gradini di sopraelevazione su cui il coro stesso poggiava.
Nella sua sintetica piantina Mongelli pone il coro ligneo esteso tra la terza e la quarta coppia di pilastri della navata e oltre, e ipotizza così una gradinata della tribuna, con a fianco gli amboni, stretta tra due coppie di sostegni non meglio caratterizzati. La sporgenza inferiore del coro verso la cappella della Madonna sembrerebbe inoltre eccessiva, quasi a impedire il passaggio tra la parte meridionale della basilica e quella settentrionale.
Più verosimile e precisa, anche se in dubbio fra due soluzioni differenti, la pianta ricostruita dall’anonimo monaco della prima metà del ‘900 attesta l’allineamento del coro, in una delle due versioni, all’altezza della quarta coppia di pilastri compositi, mentre nell’altra arretra ancora di più il coro verso la scala del presbiterio, e indica in entrambe l’altare della Madonna delle Grazie, con la lettera F, altare proprio del coro che il Mongelli non manca di citare nell’articolo su Bolvito, ma non disegna, e del quale invece il nostro anonimo riporta l’atto di fondazione, da parte di tale Bartolomeo Cerdio di Macchia Golana, notizia data dal Mastrullo. Il padre anonimo non era sicuramente a conoscenza del soffitto cassettonato e dorato della cappella della Madonna, dovuto alla volontà del cardinale Oliviero Carafa, commendatario dell’abbazia dal 1485 al 1515 (Mongelli, Storia di Montevergine, III, p. 82), poiché Mongelli, pur senza rappresentarlo graficamente, avvisa che la notizia è fornita dal solo Bolvito.
Riguardo alla posizione dei monumenti più famosi, sia superstiti che perduti, Mongelli ci fornisce, sulla scorta di Bolvito, alla data del 1579 una precisa collocazione in pianta, ponendo nella cappella della Schiodazione le tre tombe di Giovanni e Carlo Lagonissa e di Caterina di Vademonte, nella cappella della Marra, sotto il titolo di Santa Maria del Parto, “dove poi si estese la vecchia sagrestia”, ad essa adiacente lungo il lato sinistro della basilica, le tombe del cardinale Alessandro della Marra, di suo fratello Giacomo Antonio e della loro madre Caterina Dentice, nonché la temporanea collocazione della tomba di Berterado e Giovanni de Lautrec nella navata destra, all’altezza del pilastro tra prima e seconda cappella, anche se ci dice che fu poi spostato nella cappella del Santissimo dalla parte destra, indicando probabilmente con ciò la cappella di Capua. Il nostro anonimo segna infatti il sarcofago Lautrec con un numero 6, sul fianco destro di quest’ultima, ma nella cappella della Marra, segnata in questo foglio con la lettera Q, non sistema i tre monumenti, bensì colloca il solo “sepolcro di Caterina Dentice, moglie di Matteo Antonio della Marra e di tutta la famiglia della Marra”, con il numero 9, al centro del coro ligneo, accompagnando addirittura la didascalia con la citazione del volume dell’archivio cangianiano, senza rifarsi ad altra fonte. Purtroppo al momento non si è potuto rintracciare negli indici dei volumi del padre Cangiano conservati in archivio il rimando al foglio in questione. Il fatto che le arche dei della Marra si trovassero in quel punto e non nella cappella della Marra al momento del crollo ne giustificherebbe la perdita totale, lamentata anche dal padre Izzi nei Sepolchri, ma imputata dal Mastrullo ad un trasloco, in un momento imprecisato, almeno per quello del solo cardinale Alessandro. E’ possibile che i monumenti funebri dei della Marra seguissero la sorte del quadro sull’altare della cappella, dedicata alla Madonna del Parto e rimosso dal cardinale Giovanni Leonardi nel 1601, per ragioni di decoro e aderenza alla ortodossia della riforma? Mongelli ci dice che fu sostituito con quello della Madonna delle Grazie, prelevato proprio dall’altare di questo titolo “dietro il coro”, segnato dal nostro con la lettera F. Data l’importanza del cardinale, che consacrò ben tre altari nella chiesa, tra cui quello della Madonna nel 1490, non è impossibile che la sua tomba di famiglia fosse accolta all’interno del coro dei monaci, luogo privilegiato della chiesa, anche se nascosto alla vista dell’assemblea.
Il nostro anonimo tace sia sulla tomba di Andrea da Candida, cavaliere di San Giovanni morto nel 1459, pure distrutta nel crollo del 1629, descritta da Bolvito insieme ad altre e situata nella parte alta della navata destra, che sul monumento a Cassiodoro Simeoni: di entrambi si conservano ampi frammenti nel museo dell’abbazia e sono documentati nei manoscritti del p. Izzi e nelle carte dell’archivio. Nella sistemazione della navata destra, con le varie cappelle che si concludono col cimitero dei monaci, l’autore delle piante replica invece fedelmente Mongelli-Bolvito.
Si allinea, essenzialmente, alla tradizione verginiana anche sui sepolcri angioini nella cappella della Madonna, disegnando le quattro colonne per quello del re Ludovico di Taranto, accanto a quello in pietra della madre Caterina II di Valois e alla cassa lignea dipinta della sorella, la principessa Maria di Valois, e cita, senza tuttavia disegnarne la posizione, le statue dei membri della famiglia, compreso il fondatore della cappella, Filippo, rivolte verso l’icona, di cui l’autore del Brevilogio riferisce la presenza ancora nel 1777.
Il solo Mongelli aggiunge un’altra cassa lignea, sul lato opposto della cappella della Madonna, riferita da lui al trasporto a Montevergine del corpo di Caterina imperatrice di Costantinopoli nel 1347, che il De Luciis, come già il Renda, seguito dal Mastrullo, ritiene invece adoperato per una diversa traslazione, quella della salma della regina Giovanna I, nel 1382, per volere di Carlo III di Durazzo, da Santa Chiara in Napoli a Montevergine.
L’anonimo monaco, infine, pone il presunto monumento di Caterina Filangieri accanto al primo pilastro a destra di chi entrava in chiesa, dove fu effettivamente posto, dopo essere stato rimosso per volontà di San Giovanni Leonardi nel 1600 dalla cappella della Madonna, luogo dove ancora lo enumera il Bolvito, e Mongelli con lui, dicendosi certo dell’identità della defunta grazie anche ad una immagine di cera ex-voto allora presente nella cappella.

Bibliografia:

Insediamenti verginiani in Irpinia, Cava dei Tirreni, 1988

Capolavori della terra di mezzo, Napoli, 2012

Il museo abbaziale di Montevergine, Napoli, 2016

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