Giuseppe Marotta e il “mare verde” d’Irpinia

Date:
22 Ottobre 2013

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il testo della presentazione di Raffaele La Sala al volume curato da Paolo Speranza, La memoria ricorrente. L’Irpinia letteraria di Giuseppe Marotta, tenutasi presso la Biblioteca di Montevergine giovedì 10 ottobre 2013

Giuseppe Marotta e il “mare verde” d’Irpinia

(di Raffaele La Sala) 

L’occasione di un anniversario, ignorato dai più e che invece Paolo Speranza ha ricordato con un pregevole volume di riflessioni, rarità bibliografiche ed autorevoli testimonianze (La memoria ricorrente. L’Irpinia letteraria di Giuseppe Marotta, Mephite edizioni, Avellino 2013), ci impegna -pur in un tempo infausto per la memoria- ad una rilettura non frettolosa dell’opera di Giuseppe Marotta. Troppo a lungo prigioniero del pregiudizio critico di una napoletanità bozzettistica e di maniera, o al più ricordato come il giornalista meridionale ospite un po’ a disagio delle redazioni giornalistiche del nord (ed oggetto di livide malevolenze), Marotta può oggi, a cinquant’anni dalla morte, riaffacciarsi alla storia letteraria ed occupare il ruolo che gli spetta. Beninteso c’è anche Marotta scrittore a un tanto al metro, così come nella sua vasta produzione giornalistica non mancano frequenti cedimenti all’ovvio, ma non è difficile, con una lettura meno banale e preconcetta, rintracciare il filo di un’esperienza, solitaria e consapevolmente estranea a mode intellettuali e scuole di pensiero, eppure sostenuta da un fine gusto narrativo che ne fa una delle grandi voci della letteratura del ‘900. Un protagonista, benché appartato, di quello straordinario ventennio (tra il ’40 ed il ’60) non ancora sufficientemente indagato in sede critica nella sua straordinaria vitalità (e troppo presto condannato all’oblio): quello, tra gli altri, di Vitaliano Brancati, Patti, Cassola, Flaiano, Tomasi di Lampedusa, Bassani, Carlo Levi, fino ai più giovani Mastronardi e Scotellaro, o i ‘napoletani’ Ortese, Incoronato e Rea.

In questo contesto l’opera di Marotta ritrova senso e dignità ed anche la sofferta testimonianza d’amore all’Irpinia (terra pudicamente amata, sogno gentile, memoria di affetti nitidamente scolpiti nel cuore, e sempre evocati, i bagliori di infanzia, la ricerca del padre, giornalista ed avvocato, in una Avellino meno sonnolenta e marginale di quanto oggi malinconicamente non sia) si rivela, oltre ogni compiacimento campanilistico, come la chiave interpretativa per recuperare alla storia letteraria uno scrittore sorprendentemente attuale.

Il volume di Paolo Speranza, insieme ad altri studi e testimonianze già noti (Barbieri, Pionati, Iermano, Picone, Saggese, Massaro), non solo colma una vistosa lacuna critica, ma apre anzi squarci inediti sul Marotta giornalista e sceneggiatore, e sul sopralluogo a Montevergine con Cesare Zavattini e Vittorio De Sica (per un episodio de “L’oro di Napoli” che non si girò e che accese anche l’acerbo e vitale entusiasmo di Camillo Marino e ne segnò, probabilmente, il percorso intellettuale).
In Testa e croce, un racconto ne Gli alunni del tempo del 1960, (ora ripubblicato da Speranza, pp. 33-37) Marotta immagina un incontro con il padre dopo la morte. Al padre che gli chiede “E’ forse un obbligo la nostalgia?” risponde: «D’altronde non mi sono riaffezionato volontariamente, di proposito, ad Avellino e all’infanzia che vi trascorsi: è proprio come un debito, io ne sento la scadenza (una virtù del galantuomo, il quale non attende la chiamata del notaio) e a piccole, frequenti rate la pago».
Avellino, Mercogliano, Montevergine sono veri e propri luoghi dell’anima, dei quali Marotta si riappropria con sofferto pudore, le tappe di un percorso a rebours fino a rintracciare la trama più intima e segreta della sua infanzia spezzata, insomma un’occasione per fare i conti con la propria vita che gli aveva dato ad un certo punto successo e danaro, ma che non poteva restituirgli il padre.
Ecco perché non mi convince –per quanto suggestiva- la nota di Piero Gargano a proposito della canzone Mare verde (musica di Salvatore Mazzocco), con la quale Marotta si consegnava (oltre che alla storia letteraria ed a quella del cinema) anche a quella straordinaria della canzone napoletana. “L’idea del mare verde era venuta a Marotta –scrisse Pietro Gargano- mentre guardava una partita del Napoli sul prato dello stadio ‘San Paolo’, da poco inaugurato”. Non mi pare. Anzi, ad una attenta rilettura, il testo evoca, con inequivocabile evidenza, le aspre dolcezze di paesaggi montani: quelli che dal viale dei Platani, attraverso le Torrette, portava a Mercogliano e poi al santuario di Mamma Schiavona.

Vediamo:

Nun è campagna è mare, mare verde:
nu golfo d’erba, na scugliera ‘e fronne,
ca luntano se perde sott”o cielo d’está…

E pe’ stu mare verde senza fine,
suonno d”a vita mia,
cchiù carnale e gentile
tu cammine cu me…
Ll’ombra te veste ma te spoglia ‘o sole:
si’ d’oro comm”o ggrano…
Tremmanno ‘e passione
t’astregno sti mmane…
e ‘o mare verde,
ce ‘ncanta e ce perde,
abbracciáte accussí…

II

Dorme nu bosco e canta na surgente…
Sisca nu treno sott’a na muntagna…
Va sbarianno cu ‘o viento,
na palomma ccá e llá…

Insomma, in quel “mare verde senza fine, suonno d’ ‘a vita mia”  Marotta ritornava all’accogliente e materno paesaggio d’Irpinia: quello dell’infanzia avellinese e quello ribollente di Montevergine ne L’oro di Napoli.