La “visione” di Costantino in una edizione del 1755

Date:
12 Novembre 2019

(di Paola de Conciliis)

Iacuzio_MatteoCome ci ricorda Giovanni Mongelli, difficilmente si troverà nella storia di Montevergine un altro procuratore generale che abbia lavorato tanto come Matteo Iacuzio.
Matteo Iacuzio nacque a Forino in provincia di Avellino nel 1716; nel 1731 effettuò la vestizione. Dal 1732 al 1739 fu studente a Napoli, a Roma e poi ancora a Napoli. Divenne in seguito lettore di filosofia, teologia, e organista; nel 1760 fu abate di Castelbaronia; dal 1763 al 1766 e dal 1775 al 1778 fu abate generale. Morì nel 1780. Autore di diverse opere erudite, divenne molto noto, soprattutto con il Brevilogio, che sintetizzava la storia e la particolarità della congregazione verginiana, e la Historia visionis Constantini Magni. Il Brevilogio  fu pubblicato senza il suo nome, che compare solo nella dedica al vescovo di Thiene, Don Antonio Grütel,  da parte del verginiano Angelo Maria D’Amato, che ne curò l’edizione. La Historia visionis Constantini Magni è l’altra sua opera che ne rivela la profonda conoscenza del greco e del latino.

Sul frontespizio dell’edizione del 1755 ricorre una vignetta xilografica, appositamente composta per illustrare l’argomento dell’opera dell’abate Iacuzio, la Historia visionis Constantini Magni, come è sintetizzato nell’antiporta il lungo titolo latino.

Il testo, articolato in sei capitoli preceduti da un’introduzione, in cui l’autore illustra l’occasione e le finalità dell’opera, vuole essere un “sintagma”, una trattazione unitaria ed esaustiva della tradizione storica e agiografica relativa all’apparizione della Croce di Cristo a Costantino, prima della battaglia contro Massenzio a Ponte Milvio. L’intento dichiarato di Iacuzio è quello di confutare i detrattori dell’apparizione miracolosa e chiarire le modalità dell’evento, le sue  qualità formali, soprattutto in relazione alla disposizione accanto alla croce delle parole greche che prefiguravano la vittoria dell’imperatore: en toutò vika, il latino “in hoc vince”. Nel corso della trattazione si sofferma a lungo anche sull’insegna o vessillo da portare in battaglia, il cosiddetto labarum, su cui Costantino fece apporre un simbolo che unisce alla croce il monogramma di Cristo, formato dalle lettere greche maiuscole Χ e Ρ, entro un cerchio. Corredano il testo numerose riproduzioni xilografiche (e una calcografica firmata da Giovanni Battista Sintes) relative alla monetazione costantiniana e bizantina in cui ricorre il labarum.

L’illustrazione xilografica che compare sul frontespizio dovrebbe essere più una “semplice” vignetta che una vera e propria marca tipografica, per lo meno ciò risulterebbe dalla ricerche esperite che non hanno riscontrato alcun legame con l’editore del volume, Venanzio Monaldini; essa riprende, seppur in forma molto semplificata, la Iacuziodisposizione della scena dalla sala raffaellesca in Vaticano. Costantino è sulla sinistra, accampato al tramonto sul Monte Mario, in vista del ponte Milvio, rischiarato dalla croce luminosa nel cielo, dove si svolgerà la battaglia il giorno successivo al sogno notturno o alla visione diurna, a seconda delle interpretazioni dei biografi, Eusebio di Cesarea e Lattanzio, e delle disquisizioni dei vari commentatori che Iacuzio esamina.

Sulla destra in basso compare un angioletto che regge con una mano lo stemma della congregazione verginiana, con la doppia croce, il monogramma e le insegne episcopali, mentre con l’altra indica la visione celeste. Un libro aperto accanto ad una tromba recita il motto “Crucis a cruce fama”. La frase, che è probabilmente composta secondo i criteri degli emblemi rinascimentali e barocchi,  allude alla volontà dell’autore di ripercorrere la fama, cioè la tradizione storica, dell’apparizione della croce di Cristo,  e in tal modo illustrare, cioè dare fama, anche alla croce di Montevergine, attraverso l’erudizione, che Iacuzio riversa in modo quasi ostentato nel libretto, in cui abbondano i passi in greco.

Tra gli altri monumenta figurativi dell’apparizione, è riportata una versione in cirillico del sogno di Costantino, a cui appare Cristo in persona, contenuta in un testo, le Ephemerides Graecorum et Moscorum, pubblicate dal padre bollandista Daniel Papenbroeck nel 1737. Queste furono riprese e commentate da Giuseppe Simone Assemani in un opera del 1755, che probabilmente Iacuzio vide in bozze, perché, come dichiara in nota, conosceva l’erudito di origine africana attivo alla corte papale e al servizio del Re di Napoli,  ed era a Roma come procuratore della congregazione verginiana in quegli stessi anni.

La vignetta xilografica tratta dalle Ephemerides, a p. XXIX, che costituisce uno dei motivi di interesse iconografico del volume, riproduce probabilmente l’illustrazione del volume degli Acta Sanctorum Maii del 1737.  Nella nota Iacuzio, sulla scorta di Assemani, si premura di segnalare che le tavole pittoriche, ossia le icone,  che l’incisore chiamato a illustrare gli Acta prese a modello, risalivano all’anno 1628, e questo giustificherebbe sia lo stile rozzo dell’immagine sia l’errore – lapsum – in cui egli incorse, ponendo in quella tavola la rappresentazione del sogno di Costantino Magno, insieme all’apparizione della Croce a quest’ultimo nel cielo diurno, e della sua successiva vittoria su Massenzio,  mentre il 7 di maggio nelle Ephemerides  cade la ricorrrenza dell’apparizione della Croce sul Golgota a Gerusalemme, avvenuta, secondo le fonti citate da Papenbroeck,  nel 351  in tempo di Pentecoste, durante il regno di Costanzo II, figlio di Costantino.