Un archivista di Montevergine: Bernardino Izzi

Date:
26 Gennaio 2015

(di Anna Battaglia)

Tra gli archivisti che si sono occupati della sistemazione documentaria dell’abbazia di Montevergine, nei secoli scorsi, poco conosciuto è il padre Bernardino Izzi, vissuto nel secolo 18. Nativo di Napoli, il giovane Gennaro, assunse nel 1730 il nome di Bernardino al suo ingresso in monastero; dopo gli studi gli vennero affidate,  presso la casa madre,  le cariche di lettore, maestro dei professi, segretario e vicario, priore, abate titolare presso i monasteri dipendenti. Dal 1757 al 1762 fu archivista alla casa di Loreto e si occupò di una parte della documentazione per la quale era davvero necessario intervenire, la sezione diocesana, che non presentava alcun  sussidio per le ricerche, non essendo stata mai ordinata né descritta. A tal proposito è opportuno ricordare che i lavori precedenti, come ad esempio il cosiddetto Vecchio Inventario del  secolo XVI e l’importante lavoro di inventariazione del sec. XVIII del padre Gaetano Giannuzzi  e successivamente del padre Carlo Maria Cangiano, attualmente distribuiti dalla busta 251 alla 259 dell’archivio storico di Montevergine, avevano lasciato da parte tutto quello che si riferiva all’archivio diocesano. Era dunque molto difficile, così come lo è tuttora per gli incartamenti non sistemati e descritti, consultare le numerose carte della diocesi di Montevergine, accumulate, nel corso degli anni, presso il palazzo abbaziale di Loreto. A differenza degli altri documenti, la sezione diocesana, rimasta sempre nella sua sede, non aveva subito alcun trasferimento a causa delle soppressioni e neanche nel 1810 quando l’abbazia Nullius era stata smembrata. L’opera del padre Izzi fu perciò notevole, ma, purtroppo, non si concretizzò con l’elaborazione di volumi esplicativi dell’ordinamento assegnato alle serie archivistiche. La sua figura è ricordata particolarmente nel Necrologio Verginano, al mese di aprile del 1777,  dove si annota la sua grande perizia nel  registrare le scritture dei molti monasteri verginiani; altrove, nel Registro ufficiale dei Capitoli, si scrive di lui che poteva considerarsi da esempio poiché non lo si era mai visto stare in ozio. Il religioso è  autore altresì di molti manoscritti, dai molteplici interessi; si tratta di documentazione inedita, che arricchisce di contenuti la vasta documentazione cartacea dell’archivio storico di Montevergine, nel secolo 18 e che si ritiene opportuno qui segnalare.

Izzi BernardinoTali  documenti si distinguono, già a primo acchito, a causa della stesura corsiva tonda chiara, elegante, piacevole alla lettura; il  primo documento, del 1742, è relativo all’ordinamento degli studi. La congregazione virginiana puntava molto sulla formazione intellettuale dei giovani, non solo per il valore intrinseco, ma perché, opportunamente preparati, avrebbero potuto svolgere le funzioni sacerdotali in maniera più conveniente. In tale periodo ci fu un nuovo assetto per gli studi monastici anche allo scopo di non sfigurare rispetto agli orientamenti della cultura del tempo. Particolarmente importante la riforma realizzata al tempo della visita apostolica dell’abate Angelo Maria Mancini dalla quale scaturirono le Nuove Costituzioni per la Congregazione Benedettina di Montevergine. Queste ultime, pur rimanendo intatto il testo di quelle precedenti, vi aggiunsero nuove regole, approvate dal papa Benedetto XIV nel 1741. A tal proposito è opportuno ricordare che, nel corso del tempo, alla Regula  furono apportate diverse modifiche allo scopo di adeguarsi ai tempi. Nel patrimonio archivistico e bibliografico della Biblioteca Statale di Montevergine si riscontrano numerosissime stesure ed anche tante edizioni a stampa che hanno sancito ufficialmente, attraverso gli Imprimatur (le approvazioni ecclesiastiche della curia Romana per la stampa) e le Approbatio (approvazione del superiore della casa religiosa di appartenenza) i nuovi orientamenti. I religiosi, infatti,  nel dare alla luce le loro opere dovevano sottoporle dapprima  ai loro superiori; una volta ricevuta la conferma si passava poi all’attenzione degli organismi appositi della Curia romana, secondo i dettami del codice di diritto canonico. Molto conosciuta ed importante è l’edizione del 1599, stampata a Napoli, dall’editore Gian Giacomo Carlino; la sua stesura fu conseguente alla visita apostolica di san Giovanni Leonardi, incaricato dal papa Clemente VIII di occuparsi del riordino della congregazione verginana all’epoca. Le innovazioni del 1741 suscitarono molto malcontento  nella congregazione e per tale ragione vi furono numerose deroghe; la documentazione archivistica ci mostra un grosso fascicolo degli anni 1741-1742  nel quale si espongono le ragioni contro la validità del breve pontificio; si giunse anche al punto di impedire la pubblicazione del testo che era stato già stampato nel 1741 a Roma dal tipografo Girolamo Mainardi, sotto gli auspici del cardinale Marcello Passeri, allora protettore della Congregazione Verginiana. Il manoscritto, dapprima citato, esplica, punto per punto, i motivi per i quali venivano ostacolate le nuove costituzioni che nonostante fossero elaborate con spirito di carità, è scritto,  potevano raggiungere un fine non prevedibile. Particolarmente al capitolo 7, quello che riguarda gli studi, si riscontrano numerosissime osservazioni; si ritiene sconcertante che gli studenti possano cambiar lettore (nell’ambito dell’organizzazione interna della congregazione benedettina i monaci lettori erano quelli incaricati ufficialmente dell’insegnamento) a causa delle opinioni diverse  degli stessi lettori, ma anche degli altri maestri e che fossero cambiate le materie d’insegnamento. Per tale ragione il buon padre Beniamino, a memoria dei posteri, temendo dispersioni, estrapola dal borrone (si tratta della minuta o brutta copia) e da altre carte  della riforma degli studi, i corollari fondamentali stilando il cosiddetto Metodo che si può o dovrà tenersi negli studi della Congregazione Benedettina di Montevergine da ordinarsi con Breve Apostolico, arricchendolo con sue osservazioni personali. Il manoscritto illustra, punto per punto, i corollari fondamentali ; in principio si ribadisce che debbano essere ammessi  i giovani che abbiano non solo i requisiti previsti dalle costituzioni, ma che siano di buona indole. I novizi, scrive il religioso, fatta la loro solenne professione, dovranno essere collocati in un determinato monastero e non spostati da una casa all’altra, dove intraprendere lo studio delle Lettere umane e della Retorica per un anno intero e poi passare a quello della Filosofia per un biennio, alla fine del quale si sosterranno dapprima delle dissertazioni private e poi almeno una  pubblica. Di seguito un altro biennio, suddiviso per semestri, nei quali si dovrà apprendere la Logica, la Fisica e la Metafisica.

Infine lo studio della Teologia che durerà quattro anni; alla fine di ogni anno ci sarà una conclusione pubblica, in modo tale che si dovranno sostenere quattro dissertazioni. Inoltre si sottolinea che lo stimolo più efficace per svegliare i giovani, là dove manca una vera e propria passione, è quello di far sostenere loro gli esami, che dovranno essere molto rigorosi, svolti dal Padre Generale con quattro Diffinitori ed altrettanti religiosi da scegliersi nell’ambito dei Capitoli. Terminato il corso degli studi lo studente sarà dichiarato licenziato in Teologia. All’ottavo corollario del Metodo, il buon padre Izzi , fa un’osservazione molto importante: i giovani non portati per lo studio, egli scrive, dopo aver fatto ogni esperienza e tentato qualsiasi strada, è opportuno continuino per quattro anni almeno a studiare la Morale, in modo da essere utili e giovare in altro modo alla Congregazione, anche se in tal modo non possono essere ammessi al sacerdozio. ualche modo alla CongraUn altro importante manoscritto del padre Bernardino riguarda la spetieria del palazzo abbaziale di Loreto: si tratta della Distinta notizia delle spese fatte nella Spetieria in tempo della Fabrica di Loreto nell’anno 1750 entrante ’51 e terzo anno del generalato dell’Ill.mo e R.mo P. abate D. Nicola M.a Letizia come dal libro Mag.re della Fabrica. Da tale scrittura è possibile ricavare molte notizie circa la consistenza degli arredi dell’infermeria, ma anche sull’acquisto di medicamenti e droghe, che avveniva per lo più alla fiera di Salerno, dove i monaci di Montevergine si rifornivano. La documentazione custodita, nella busta contrassegnata dal numero 57, ci mostra i bandi annuali emanati a Salerno dal 1661 al 1807 per la difesa dei diritti dei verginiani, che avevano la precedenza su tutti per l’approvvigionamento delle merci. L’ordinanza rivolta a qualsiasi persona di qualunque stato o condizione prevedeva, in caso di inosservanza,  il pagamento di quattro once d’oro ed altre pene previste dall’autorità garante. Inoltre, viene specificato, come tale privilegio dell’abbazia di Montevergine, fosse di origine antica, immemorabile e perciò inviolabile; affinché poi nessuno avesse potuto ignorarlo, veniva ordinata l’affissione del bando nei luoghi stessi dello svolgimento della fiera. Questa si svolgeva due volte l’anno, il 21 di settembre, giorno del martirio di san Matteo, patrono della città di Salerno, ed il 4 di maggio, giorno della traslazione del corpo. La Fiera  fu un avvenimento considerato un vero e proprio rito a cui bisognava partecipare per un dovere imposto dalla fede perché, almeno una volta l’anno, era opportuno portarsi davanti all’altare di San Matteo ed anche per le opportunità offerte dal mercato dei prodotti provenienti da luoghi lontani, grazie alla presenza del porto nella città. Era possibile riscontrare qualsiasi mercanzia e tanti prodotti locali, come medicamenti e droghe prodotti dai laboratori della prestigiosa  scuola medica salernitana,  acquistate dai monaci verginiani per la spetieria della casa, come ci attesta l’inventario del padre Izzi.  Gli esiti del 1756 evidenziano le spese per l’acquisto di rimedi naturali  per le cure dei reverendi padri: l’uso delle mignatte o sanguisughe, dal forte potere anticoagulante e delle vipere da cui si produceva la teriaca, antico rimedio usato, per diciotto secoli, per qualsiasi tipo di male. Per la preparazione di tale medicamento, considerato davvero miracoloso per malattie fisiche e mentali, venivano impiegati i trocisci di vipera cioè le vipere femmine, non gravide, da cui venivano estirpate la coda, la testa e le viscere. A sorvegliare su tutte queste attività, i Protomedici che ricevevano dalla congregazione un adeguato compenso, anche per vagliare le capacità dei monaci che intraprendevano la professione di farmacisti. Una descrizione molto dettagliata della spetieria nel 1763 nello stesso incartamento (busta 173) ci viene fornita dal Padre Beniamino definito “esattissimo segretario” sotto il generalato dell’Ill.mo e Rev.mo Niccolò Maria Letizia.

“Uno stipo di noce per porvi i Vasi con pomi indorati sopra, e capitelli anche indorati. In mezzo di detto stipo un quadro della vergine con cornice negra, e stragalli indorati. Sopra di detto quadro una colomba indorata. Avanti detto quadro una lampada d’argento. Un bancone di noce sopra del quale vi è una colonnetta di marmo colla sua base anche di marmo, commessa e lavorata di duro. Sopra detta colonnetta una bilancia di ottone coi suoi pesi di piombo. Un calamajo di marmo commesso e lavorato di duro, come la sua base. Un calamajo di ottone col suo polverino. Un tavolino di marmo commesso, e lavorato di duro con San Guglielmo nel mezzo. Una bilancina coi suoi pesi per pesare le cose minute. Vasi uniformi, grandi, mezzani e piccioli, trecento sessantatrè. Quattro lancelloni per tenerci acque distillate simili nella crosta ai vasi. Un vaso di argento col coverchio anche di argento sopra del quale vi è la statua di San Guglielmo pure di argento. Due giarre di cristallo con coverchi. Dieci mescole, delle quali una di argento, una di ferro ed otto di ottone. V’è due nicchi che sono lavorati ed indorati, e colle portelline avanti indorate, e di vetro, vi sono molte caraffine dentro con roba di spetieria preziosa.

Lavoratorio. Tre mortaj di bronzo con loro pestonj, uno de quali è grande, e due piccoli. Un mortajo di pietra col suo pestone di legno. Due lambicchi di rame, uno de quali è grande e l’altro piccolo. Un torchio di legno con cerchi di ferro per l’olio di mandorle. Una forata di ferro col suo canale anche di ferro per dett’olio. Una  molletta di ferro. Una scomarella di ferro. Tre conche di rame, ad una sola delle quali vi sono le maniche. Una braciera di rame, col piede di legno e paletta di ferro. Tre stainati di rame. Una pietra di porfido per macinare. Un macinaturo anche di porfido. Setaccio cordiale. Setaccio solutivo. Setaccio stomatico. Setaccio per la cascia. Un crivo. Due materassi di vetri con loro cappelli. Storta di vetro, Orinali, Recipienti.

Libri. Donzelli tomo 1. in foglio. Mattioli tomo 1.in fog. Elister vitae tom. 1. in fog. Quercitano tom. 1. in 4. Datus sanitati tom. 1. in fog. Mattia Amidei tom. 1.in 4. Cristofaro  Agosta tom. 1. in 4. Giovanni di Vico tom. 1. In 4. Costantino de Notarij tom. 1. In 4. La tariffa ed il Petitorio.

Arcovo. Tre scanni di ferro. Una lettiera. Due materassi di cocitrigno Lavorato. Due cuscini. Quattro lenzuoli. Una coverta di lana usata. Un covertolo di bambace. Una Boffetta di noce con armadio. Un quadro grande con cornice negra della SS. Annunziata. Sei sedie pittate.

Mobili sistenti nella stessa Spezieria, e fatti dallo speziale fra Giuseppe da Crispano a tenore del sud.o registro

Una libbra di bronzo. Un piede indorato, e intaglito, ove poggia un tavolino di marmo con San Guglielmo nel mezzo. Un lione di legno pittato ed indorato per mantenere un mortajo. Un mortajo di porfido col pestello di vetro. Sei sedie di paglia indorate e pittate.

Alla fine della scrittura la nota dell’archivario D. Guglielmo Giustino:

Extracta est praesens nota rerum existentium in Officina Medicamentaria abbatialis Palatiii Laureti MontisVirginis ex libro Annali Inventariorum, cum quo facta collazione, omnino concordat, meliori semper salva revisione, et in fidem, Ego D. Gulielmus Giustini Archivarius.