Cos'è
Introduzione
La mostra I Corali nella storia del Mezzogiorno: Montevergine e Cava intende offrire ai visitatori un emozionante viaggio tra alcune testimonianze del patrimonio liturgico-musicale lasciate in eredità dalle due più importanti Abbazie benedettine della Campania. I due monasteri, nella duplice veste di monumenti di spiritualità e di fede e di vere e proprie fucine del sapere, hanno custodito con devozione e cura un patrimonio culturale di inestimabile valore, di cui quello musicale si continua a far riecheggiare nelle proprie liturgie. In tale contesto si inserisce una interessante e straordinaria tipologia libraria, conosciuta con il nome di Corale, che in tutta la sua grandezza storica ed artistica porta alla luce il profondo legame che da sempre ha unito il canto gregoriano all’ordine benedettino e l’armonico connubio esistente tra l’elemento musicale e quello liturgico.
I libri Corali
Tra i manufatti di grande pregio storico e artistico che nascevano al servizio della liturgia, il Corale, vero e proprio microcosmo di colori, segni, suoni e materiali, è tra i meno noti al grande pubblico perché non essendo più in uso nelle celebrazioni liturgiche trova collocazione oggi in archivi pubblici ed ecclesiastici oppure in sagrestie di cattedrali e di basiliche. Una schiera di monaci, calligrafi, miniatori e battiloro veniva interessata nella produzione del grande libro destinato al badalone, il leggio collocato al centro del coro della chiesa, ed usato dal clero e dai cantori per accompagnare la liturgia con il canto. Le ampie carte pergamenacee, vergate in una scrittura di modulo grande, definita “gotica corale” e protette da solidissime legature, alternano righe di testo a righe di musica. Di norma in minuscola nera sono redatti i salmi, i versetti e le antifone, in minuscola rossa le rubriche e in vario colore le lettere capitali che ripropongono figurativamente scene bibliche e sacre. I libri Corali, tra i più comuni salteri, antifonari e graduali, vengono composti in un periodo cronologico che copre i secoli XIII-XIX, presentano differenti livelli di esecuzione e alcuni si distinguono per la raffinatezza della scrittura, l’eleganza delle decorazioni e il pregio del materiale scrittorio, in gran parte pergamenaceo. Il Graduale K e l’Antifonario D della Biblioteca Statale di Cava ne sono una gran bella testimonianza, allestiti nel periodo in cui l’arte del minio ritornava in auge e praticata per lo più da miniatori provenienti dalla città di Napoli. Ogni sezione di testo viene introdotta da un capolettera figurato al fine di conferire al libro un valore conforme alla destinazione sacra. Sono numerose le iniziali decorate che ravvivano i due manoscritti, dominate dai colori verde, azzurro, rosa, rosso e arancione con lumeggiature bianche o dorate. Alle decorazioni a fiori e a fogliame si aggiungono elementi come mascheroni, putti e figure religiose. Ulteriori motivi vegetali e floreali si pongono a mo’ di cornice ai margini delle carte, quasi a creare una sorta di prolungamento delle iniziali stesse. Semplicità calligrafica senza particolari costruzioni decorative caratterizza invece i corali manoscritti della Biblioteca Statale di Montevergine che si datano ai secoli XVIII-XIX. L’Antiphonarium diurnum del 1740, redatto dal monaco Cesare Pelosi di Paternopoli sotto il generalato dell’abate Michele Del Re, si contraddistingue per la legatura in cuoio, su cui è collocata al centro una borchia metallica con la raffigurazione dello stemma dell’Abbazia di Montevergine, in cornice mistilinea rococò, e per il disegno a colori dello stemma dell’abate del Re sul frontespizio. Dell’Antiphonarium monasticum proprium de sanctis, invece, composto circa un secolo dopo, nel 1882, si evidenzia la compilazione a nome del verginiano Giuseppe Llobet, che si occupava anche di altro al monastero, essendo alla direzione dell’Osservatorio meteorologico. Non secondari, ma anzi di grande interesse le carte e i frammenti di antifonari e messali dei secoli XI e XII in possesso della biblioteca verginiana, molto probabilmente estrapolati da libri liturgico-musicali di più modeste dimensioni. Tagli e mutilazioni ricorrevano spesso per esigenze pratiche e per motivi di risparmio e riuso. Nonostante l’incompletezza dei frammenti in mostra, studiosi ed archivisti ne hanno tratto dati utili per ricostruirne l’identità. Il contenuto, costituito dalla notazione diastematica con quattro linee a secco, si orna in qualche punto di iniziali decorate con motivi zoomorfi e fitomorfi.
I miniatori della Napoli aragonese e i monasteri benedettini
Se nel caso del Salterio d’Ayerbo non è noto alcuno dei passaggi che hanno portato il manoscritto in possesso della biblioteca verginiana, i corali di Cava in mostra appartengono ad una fase tarda della vita della Badia, conseguente alla ripresa della vita comunitaria ad opera della congregazione cassinese, che aveva ripopolato il monastero dopo la fine del periodo della commenda cardinalizia, durato dal 1431 al 1497. La comunità monastica, pur nelle difficoltà economiche e organizzative, dovute anche alla perdita della città di Cava nel 1513, fa realizzare nel corso del XVI secolo un insieme di 21 libri di coro, necessari alla liturgia. I contatti continui con la casa benedettina di Napoli, SS. Severino e Sossio, determinano la venuta a Cava di amanuensi e miniatori dalla capitale, o comunque l’invio di prodotti, a sopperire alla mancanza di uno scrittorio locale, anche perché con l’avvento della stampa la produzione libraria corrente avveniva con altri mezzi. Il gruppo dei codici di questo periodo è stato analizzato sistematicamente dal Rotili (Rotili 1976), da cui mutuiamo le nostre descrizioni, e successivamente inserito dalla Perriccioli nel suo saggio sulla miniatura nei libri di coro napoletani. La studiosa descrive i rapporti di committenza dei monasteri di Montecassino e di SS. Severino e Sossio con miniatori del calibro di Giovanni Boccardi e Matteo da Terranova, toscani, Joan Todeschino e il Maestro del Retablo di Borea, identificato con il catalano Pedro de Aponte, che mettono anche per la miniatura Napoli e il Regno al centro delle rotte mediterranee, oltre che importarvi la cultura figurativa rinascimentale centro italiana. Si sofferma infine sul più modesto set cavense, per il quale è stato possibile rintracciare, attraverso le attestazioni di pagamento conservate nell’archivio della Badia, i nomi di alcuni artisti, tra cui un “Tommaso miniatore” da Napoli, pagato nel 1519 per un “libro de la cantoria” identificato dal Rotili nell’Antifonario L. I corali datati ai decenni centrali attraverso i pagamenti registrati non sono stati ricondotti ad una bottega in particolare, ma, come nel caso dell’Antifonario D in mostra, sono conosciuti i nomi dei soli calligrafi, che devono aver provveduto anche alla decorazione, fatta di semplici iniziali, “di buon livello, ma certamente profondamente diverse da quelle di Montecassino” (Perriccioli 1991). A una bottega attiva anche per la chiesa di Santa Maria della Sanità si devono invece alcuni dei corali più tardi, databili all’ultimo decennio del secolo, quale il Graduale K, in mostra, nella quale la Putaturo Murano ha recentemente proposto il nome di Giovanni Ballo quale amanuense, distinto da quello di Giovan Battista Rosa come miniatore (Perriccioli 1991). Come per il periodo antico e medioevale, l’arte della miniatura nel Quattro e Cinquecento rispecchia in modi molto evidenti le caratteristiche, le conquiste e le influenze geograficamente differenziate della pittura monumentale, pur essendo ormai un’arte al tramonto, che di lì a poco sarà definitivamente soppiantata dall’incisione nella decorazione dei prodotti a stampa. Il virtuosismo tecnico dei maestri di questo periodo fa da contrappeso alla carenza talvolta di invenzioni figurative. Nei corali cavensi in mostra si può notare un’insistenza su forme decorative prevalentemente fitomorfe e sulla ricchezza cromatica, di gusto manierista.
La tecnica della miniatura
Il termine francese enluminure, riportato anche da Dante, derivante dal latino inluminare, indica probabilmente l’aggiunta di “luce” alle pagine disegnate, con l’uso dei colori e dell’oro, mentre l’italiano miniare deriva dal nome del minerale di piombo usato per ricavare l’inchiostro rosso, prevalentemente utilizzato per la decorazione basica del codice, ossia la colorazione delle iniziali. Il foglio di pergamena, ancora non legato agli altri, era squadrato e rigato, poi il calligrafo operava copiando il testo secondo gli schemi prescelti, avendo cura di lasciare lo spazio a disposizione del pittore miniatore per l’iniziale da decorare, e talvolta producendo già il disegno della lettera a punta metallica o a matita, nonché segnando dei punti colorati a indicare le tinte da utilizzare. A questo punto il miniatore interveniva iniziando a disegnare i suoi motivi e le sue figure, poi ripassandole eventualmente a inchiostro, e se era previsto l’oro, stendeva la lamina lungo i contorni esterni delle figure, con l’aiuto di carta bambagina, e poi procedeva alla brunitura con avorio o ematite. Solo a questo punto iniziava la stesura dei colori, per velature successive, sostanzialmente seguendo gli sviluppi della pittura a tempera. La tecnica pittorica con cui veniva realizzata la miniatura, dal Medioevo sino al Cinquecento, rimane sostanzialmente invariata, prevedendo una minima preparazione del supporto membranaceo con fiele di bue e albume d’uovo oppure colla (animale) e miele. I pigmenti in polvere, ottenuti da minerali, come il minio, (ossido di piombo, rosso) e vegetali, erano diluiti in una soluzione di gomma arabica e zucchero o fiele e alcol. Non essendovi però, a differenza della pittura a tempera, nessuno strato finale protettivo sulla pagina colorata, è evidente la delicatezza della superficie, protetta nel tempo quasi esclusivamente dal fatto di essere conservata chiusa, al riparo da luce e traumi.
Bibliografia
Perriccioli Saggese, A., I codici miniati in “Insediamenti verginiani in Irpinia: il Goleto, Montevergine, Loreto”, Napoli-Cava dei Tirreni, 1988; Putaturo Murano, A., Perriccioli Saggese, A. (a cura di), Miniatura a Napoli dal ‘400 al ‘600: libri di coro delle chiese di Napoli, Napoli, 1991; Rotili, M., La miniatura nella Badia di Cava, 1976-78 Toscano G., Tre miniatori rinascimentali a Napoli, Roma e Ferrara. Matteo Felice: un miniatore al servizio dei re d’Aragona di Napoli, in “Bollettino d’arte”, 80, n. 93/94(set-dic. 1995)
Luogo
Contatti
Dettagli
- Genere: Mostra
- Curatori: Progetto e ideazione della mostra: dom Carmine Allegretti; redazione dei testi: dom Carmine Allegretti, Paola de Conciliis, Sabrina Tirri; ricerca e selezione del materiale, preparazione didascalie e allestimento mostra: Vito Colonna, Cucciniello Costanza, Paola de Conciliis, Annalisa Lombardi, Giuseppe Macchia, Lucia Palmisano, Sabrina Tirri, Filomena Ventola; impaginazione grafica didascalie: Giuseppe Macchia; fotografie: Vito Colonna, Sabrina Tirri; servizio educativo: Tommasina Romano, Sabrina Tirri; ufficio comunicazione e stampa e promozione culturale: Vincenza Lasala; servizi di segreteria e supporto tecnico: Lucrezia De Simone e Rocco Bello In collaborazione con l'Abbazia di Cava