Lasciare la presa e ricordare: una riflessione di Enzo Bianchi sulla vecchiaia
Date:
11 Aprile 2019
(di Domenico D. De Falco)
Enzo Bianchi, La vita e i giorni. Sulla vecchiaia, Bologna, Il Mulino, 2018
Leggere Enzo Bianchi è sempre una esperienza significativa, illuminante, formativa. Non scopriamo nulla di nuovo: l’ex priore della Comunità Monastica di Bose pubblica delle riflessioni semplici, scritte con un linguaggio altrettanto genuino e quando le si legge ci si convince facilmente e velocemente della loro profonda verità. Ma poi, se si prova a replicarle, magari a raccontarle a nostra volta, o anche banalmente a ripensarle, allora ci si rende conto che non è possibile, giacché si tratta di autentiche epifanie che per quanto elementari, per poter essere concepite e divulgate in maniera chiara – così come fa Enzo Bianchi – hanno bisogno del dono della comunicazione, quello che rende comprensibile anche la più complicata delle teorie.
In poco più di 100 pagine, Enzo Bianchi fa un capolavoro di sintesi sulla vecchiaia, non tralasciando di affrontare con il suo tono lieve, ma molto intenso, alcuni luoghi comuni solitamente riferiti alla cosiddetta terza età.
In fine di ogni capitolo sono riportati i riferimenti bibliografici in cui sono citati i testi biblici – uno su tutti il Qoehlet (12, 1-8), per «leggere la vecchiaia nella sua realtà e nel suo simbolismo» -, i classici della letteratura latina – Cicerone, Ovidio, Terenzio … -, gli autori moderni – Bonhoeffer, Hillman – ma anche poeti quali Eliot, Kavafis, Manlio Sgalambro; e Violeta Parra («Grazie alla vita che mi ha dato tanto»), Edith Piaf («Je ne regrette rien»).
Uno dei capitoli più “forti” del libro è intitolato significativamente Lasciare la presa e ricordare, dal quale trascriviamo un ampio stralcio: «Lasciare la presa: è un’arte non facile, eppure è la prima da esercitarsi nella vecchiaia. È l’arte del distacco, del saper prendere una distanza, dell’accettare di non poter più tenere in mano tutte le corde […] prepararsi ad abbandonare la funzione, il posto, l’occupazione, lasciando ad altri, alle nuove generazioni, la possibilità di subentrare e di portare avanti ciò che per noi umani resta sempre inadempiuto […] Lasciare la presa permette di discernere ciò che è essenziale per una vita sensata e che possa essere “salvata”, significa affermare la dimensione della gratuità: si è fatto molto a causa dei doveri e degli impegni, ma è giunto il tempo dell’otium, del “dolce far niente” che può essere vissuto cercando la quiete, aumentando il tempo per dedicarsi alla vita interiore, per essere più liberi dalle esigenze che ci imponevamo o che ci erano imposte dagli altri. Lasciare la presa non è un lasciar cadere dalle mani nel pozzo la corda del secchio, ma un lasciare alcuni fili per stringerne con più forza altri».
Sembra un brano scritto anche per quelli come noi che, ormai molto prossimi alla pensione, si crucciano e si dolgono non per ciò che li aspetta (una nuova vita fatta di ritmi più lenti e lievi, la coltivazione dei propri autentici interessi finalmente liberi dalla tirannia del tempo, qualche più frequente viaggio approfittando di far visita a figli che lavorano all’estero…), ma perché non possono trasmettere adesso le loro conoscenze a giovani colleghi e dunque il loro “lasciare la presa” non sarà forse una fase indolore e così idilliaca come la descrive Enzo Bianchi. Al quale siamo comunque grati per avercela descritta nella maniera più schietta.