Il libro che ci è piaciuto di più nel 2019

Date:
12 Febbraio 2020

Il libro 2020_senza testo

Terza edizione della rassegna Il libro che ci è piaciuto di più. Di seguito le segnalazioni che abbiamo ricevuto, pubblicate in ordine alfabetico sotto il cognome del recensore.

Angelo Cutolo
‘O maé. Storia di judo e di camorra
, di Luigi Garlando
Questa lettura nasce da un particolare episodio della mia vita: avendo perso il lavoro fisso mi è stato chiesto se per il mese di agosto ero disponibile ad aprire tre volte al giorno uno studio per farlo arieggiare e, principalmente, dar da mangiare ai pesci; vi è un aquario gigante con 150 pesci tropicali. Il secondo giorno che andai vidi sulla scrivania un libro dalla copertina verde e il titolo nero e giallo e un disegno di un judoka e lo iniziai a leggere; ogni volta quasi correvo per leggerne le pagine, ma veniamo al contenuto del libro. Filippo, il ragazzo protagonista della storia abita a Scampia e ha la strada segnata: entrare nella camorra, detta il sistema. Il fratello maggiore, Carmine, è affiliato al clan del boss Toni Hollywood e lui lavora già come sentinella. Un pomeriggio suo zio gli chiede di accompagnarlo alla palestra di judo di Gianni Maddaloni, ma a Filippo i ragazzi che combattono in “pigiama” gli sembrano ridicoli. Lo zio viene barbaramente ucciso davanti al suo forno e così Filippo inizia a frequentare la palestra e pian piano, il judo gli insegna a guardare le cose in modo nuovo. Scopre un’amicizia disinteressata che non vuole nulla di materiale in cambio, ma solo e solamente il rispetto. La ragazzina dai capelli rossi che pur gli dimostra qualche simpatia non accetta la borsa costosissima che lui ha ottenuto con illeciti e anche questo lo segnerà. Presto Filippo sarà costretto a scegliere tra il clan di Toni Hollywood e quello dei Maddaloni. Tra il lusso estorto e dovuto ai proventi della vendita della droga e ad altri atti criminali e i fenicotteri che un tempo popolavano Scampia e che i “guerrieri in pigiama” promettono di riportare a Scampia.
Il lato buono delle monete, di Lucia Travaini
Un libretto che mi aspettavo avesse qualche foto o immagine illustrativa ed in realtà non ne ha nessuna. Lucia Travaini ha brillantemente illustrato gli usi rituali della moneta, fornendo molti spunti di ricerca, nonché di osservazione e riflessione e indagine: ogni lettore potrebbe e dovrebbe farlo, per ampliare la Numismatica, intesa come scienza. Le monete erano gettate nelle fondazioni di edifici con lo scopo di rendere benevolo il terreno di fondazione: una donazione in cambio della magnanimità della divinità tutelare del sito, ma poi scopri che sono state gettate sia nelle costruzioni dei tempi dell’antica Roma, nelle costruzioni medievali, sia del popolo che dei nobili, dalle piccole alle grandi costruzioni, sia laiche (Torre del Mangia a Siena–1325) che religiose (duomo di Siena-1224). Non mancano le monete reliquie, gli scudi d’oro macchiati col sangue di san Giovanni il Battista, anche se le monete sono battute sotto il governo di Francesco Sforza (1522–1535) e nella zecca di Milano. Le monete usate come obolo di Caronte, ma poi ci sono quelle gettate nelle tombe dei santi; dato che nel Medioevo l’obolo di Caronte dovrebbe essere ormai in disuso, ma poi scopri che ancora oggi si usa mettere in tasca al defunto qualche moneta, per cui dovrebbero avere la funzione di permettere ai posteri di datare la tomba o sono delle offerte al dipartito. Poi ci sono le monete date in elemosina ai santi e le monete offerte dai pellegrini nei luoghi di culto per testimoniare la provenienza e il periodo del pellegrinaggio, grazie alla Zecca di coniazione e al millesimo della moneta. Le monete hanno addirittura sanguinato: un giocatore che aveva perso tutto infilzò con un pugnale una moneta su cui c’era l’effige della Madonna e ne sgorgarono delle gocce di sangue; avvenne ad Empoli. Gli scudi d’oro rubati nel 1530 nella Basilica di San Giovanni Battista a Monza si macchiarono di sangue. Del sangue sgorgò da una moneta d’oro offerta da Ferrante per dimostrarne la cattiveria quando questa venne spezzata da san Francesco di Paola. Denari di Guida, il traditore di Gesù, sono conservati a Olivone e al Sacro Monte di Varese. Alcune Santelene, monete bizantine d’oro e d’argento, con l’imperatore con la croce e il globo sormontato dalla croce al diritto e nel cui rovescio si credeva di vedere l’effigie di sant’Elena madre di Costantino (ipotesi ancora da verificare) sono conservate a Ordona (FG), a Roma nella Torre delle Milizie, a Pisa alle Logge dei banchi. Sono presenti in liste databili tra il 1280 e gli inizi del 1300, come quelle di Columbia e di Jacopo da Firenze, ma il loro nome non è legato né a sovrani, né a città.
Altro libro che ricorderò per anni è Breve storia della Sindone di Massimo Centini, che se pur dato alle stampe nel 1998, fa scoprire al lettore notizie tralasciate in altri libri successivi, per lo meno un tre o quattro letti da me. Inoltre riporta nelle note molti spunti di approfondimenti e nel corpo del testo considerazioni giornalistiche circa le indagini e le analisi effettuate coeve alle stesse.

Domenico D. De Falco
Hap & Leonard, sangue e limonata
, di Joe R. Lansdale
Nei suoi numerosi romanzi Joe R. Lansdale (Galdwater, Texas, 1951) mette quasi sempre in scena il suo Texas, una terra selvaggia e violenta nella quale sembra proprio che sia difficile sopravvivere. La serie che vede protagonisti Hap Collins e Leonard Pine, due improbabili investigatori privati, si caratterizza per una rappresentazione del Texas estrema, in cui si verificano situazioni sempre ben oltre il limite della legalità e spesso e volentieri di una violenza inaudita, almeno questo è lo scenario in cui vengono puntualmente coinvolti i due amici. Tuttavia, il legame fortissimo che lega i due protagonisti, la loro amicizia e il senso della fratellanza attenuano in qualche modo l’angoscia in cui il lettore scivola invariabilmente, dopo appena poche pagine. E, benché chi ha letto tutte le avventure di Hap e Leonard e aspetta con ansia un nuovo capitolo della saga, si possa sentire in qualche modo preparato, lo è soltanto fino al punto da scoprire che non è mai così: insomma la lettura di ogni nuovo capitolo delle avventure di Hap e Leonard è un’esperienza alla quale niente può averci preparato. E continuare a leggere Lansdale equivale ad un atto d’amore. Così è anche per il penultimo libro pubblicato nel 2019 (l’ultimo, Elefante a sorpresa, è stato pubblicato a novembre dello scorso anno), dal titolo Hap & Leonard, sangue e limonata, nel quale Lansdale ci presenta i due protagonisti quando sono ancora studenti del liceo e si conoscono per la prima volta: sembra una di quelle operazioni che gli autori tentano quando devono “raschiare il fondo” della loro creatività, ma in realtà anche in questo caso prevale quella sensazione di esagerazione che pervade i romanzi con Hap e Leonard adulti, e si capisce da dove provengono i comportamenti dei due inseparabili amici. Il contesto di questo romanzo è naturalmente diverso, si torna indietro di alcuni anni, e per questo è un po’ spiazzante, ma lo stile è quello noto, la tendenza ad essere sempre sopra le righe la stessa. E gli stessi anche i dialoghi, fulminanti.
[Leonard] – Non ti sei mai chiesto chi di noi due sia il migliore?
[Hap] – No.
[Leonard] – Bugiardo.
[Hap] – Sarò onesto – dissi. – Non voglio scoprirlo.
[Leonard] – Questo lo posso capire, – disse Leonard.
[Hap] – Se dovesse succedere, le conseguenze sul nostro rapporto potrebbero non piacerci.
[Leonard] – E questo lo capisco ancora meglio

Annalisa Lombardi
One. Un modo per avvicinarsi a Dio. Gli U2 tra Rock e Bibbia
, di Federico Russo
Tra i libri letti nell’anno appena passato vorrei parlare di One. Un modo per avvicinarsi a Dio. Gli U2 tra Rock e Bibbia. Autore del testo è Federico Russo, frate francescano che concilia la sua scelta vocazionale con la passione per la musica. Nell’opera, la vicenda biografica del frontman degli U2, Bono, personalità complessa e sfaccettata, divisa tra musica e impegno sociale, si riflette e si amplifica nei testi delle canzoni, dalle quali traspare vividamente il messaggio biblico. Lo scrittore esordisce ripercorrendo il momento in cui scocca la scintilla: un brano dei Ramones accende la passione del cantante per la musica; la stessa scintilla, anni dopo, scoccherà nell’autore del libro ascoltando gli U2. Ma più di tutto sarà il pascaliano “vuoto a forma di Dio” il motore che muoverà Paul Hewson a diventare Bono Vox. La perdita della madre, la sensazione di abbandono, di vuoto profondo, di “deriva nello spazio e nel tempo” creeranno in lui l’insostenibile esigenza di colmare quello che lui ribattezza “buco” attraverso l’abbraccio delle folle. A tutto questo si affiancherà la ricerca interiore dell’Infinito, che sarà sovente accostata a quella materna; queste due forze contrastanti, gloria effimera e profondità spirituale, pervaderanno l’intero percorso musicale dell’artista. Federico Russo divide il percorso musicale della rock band in tre parti: gli anni ’80, definita la “fase dell’innocenza”, gli anni ‘90“, l’esperienza” e gli anni 2000 “la saggezza”. Ciò che si rivela fin dai primi brani, è la conoscenza approfondita delle Sacre Scritture, che nella prima fase è espressa in maniera più esplicita, idealistica e sincera. Tutto il percorso musicale è inoltre arricchito da riferimenti filosofici e teologici. Nei brani della fase dell’esperienza, si intraprende una strada diversa, quella che riflette la crisi dell’uomo contemporaneo, il rischio di smarrire i propri valori e la difficoltà a restare, come un acrobata in equilibrio tra apparenza ed essenza. Costanti rimangono i riferimenti biblici mentre il linguaggio musicale esplora nuovi universi sonori. È proprio a questa fase che appartiene Mofo, in cui si parla del “buco a forma di Dio”, ed emerge ancora più forte la ricerca spasmodica della figura materna/divina. Nella fase della saggezza si ritorna al linguaggio essenziale del rock volgendolo verso atmosfere più distese. È questo il momento in cui la saggezza porta alla capacità di lasciar andare ciò che non è più necessario, l’accettazione della realtà cosi com’è, ma vista da una prospettiva diversa, quella della fede, attraverso la quale ogni situazione rivela il suo lato di bellezza. Negli ultimi due album, Songs of Innocence e Songs of Experience, la band fa un percorso all’indietro nella memoria, un viaggio che si conclude con Love Is All That We Have Left, una sorta di accettazione dei limiti della propria esistenza e della condizione di mortalità, una sorta di testamento che riassume in sé ciò che rimane dell’esperienza, la consapevolezza finalmente acquisita è che “tutto quello che abbiamo è l’immortalità”. Questa conquista è stata suggerita a Bono dalla voce dell’innocenza, quella innocenza che l’artista, nell’ultima canzone, 13 (There is A Light), esorta a preservare.

Giuseppe Macchia
Una storia sbagliata
, di Massimiliano Amato, Ottavio Di Grazia e Nico Pirozzi
La scorta a Liliana Segre costituisce una sconfitta per l’Italia intera, ciò nonostante le sue parole di amore per la vita e libertà pronunciate al Teatro degli Arcimboldi di Milano, dovrebbero essere scolpite nelle coscienze di tutti noi. Pensare che oggi, in Italia, i ripetuti atti di razzismo, l’antisemitismo crescente, il riaccendersi dei focolai del fascismo, non siano episodi importanti, anzi spesso farli passare per fenomeni isolati o del passato, vuol dire vivere al di fuori della realtà o peggio “marciare nell’ombra”. Ricordare per non ripetere il passato, come ci ha insegnato Santayana, restare vigili, per non addormentarsi, come ricordava Gesù Cristo nell’Orto degli ulivi ai suoi discepoli, è questo il compito delle nostre coscienze, tanto più che anche l’attacco frontale a Papa Bergoglio, dalle ultradestre nazionaliste, da alcuni magnati e organi di stampa americani, da politici italiani e dallo stesso apparato cattolico, non ultima la presa di posizione del Papa emerito sul Sinodo dell’Amazzonia, rientra in questa politica razionale e studiata di violenza ed eversione. A tal proposito vi consiglio un libro che ho letto nell’anno 2019: Una storia sbagliata, di Massimiliano Amato, Ottavio Di Grazia e Nico Pirozzi. Gli autori hanno esaminato la vita di diversi uomini, tra cui Pietro Badoglio e Gaetano Azzariti, che sono stati i protagonisti di alcune delle pagine più buie del Novecento; ci raccontano un’altra faccia del “Secolo breve”, fatta di episodi e sopratutto di uomini le cui gesta sono state distorte pur di dormire con la coscienza a posto, anzi alcuni sono stati “santificati” dedicandogli strade o nomi di paesi; è il caso del criminale di guerra Pietro Badoglio, il cui paese d’origine, Grazzano Monferrato, per ricordare il suo illustre cittadino oggi si chiama Grazzano-Badoglio. Attore principale della disfatta di Caporetto, a cui sopravvive incolume, anzi venendo addirittura promosso, disfatta costata invece la carriera ad altri comandanti (Cadorna, Cavaciocchi, Caviglia), Badoglio, dopo aver sterminato (con autorizzazione di Mussolini) donne, bambini, vecchi, con l’uso del gas all’iprite (bandito dal protocollo firmato a Ginevra il 17 giugno 1926, dai paesi membri della Società delle Nazioni, tra cui anche l’Italia), in Cirenaica ed in Etiopia, diventa l’uomo chiave che guidò la transizione dalla dittatura fascista alla democrazia. Il giudice Gaetano Azzariti invece ha fatto carriera durante il fascismo diventando Presidente del tribunale della razza fino ad approdare alla Corte Costituzionale della neonata Repubblica ed è stato considerato per sessant’anni un convinto antifascista, tanto da dedicargli una strada nel borgo degli Orefici a Napoli. Strada dedicata poi, nel 2015, a Luciana Pacifici, una bimba ebrea nata a Napoli e morta a 8 mesi nel vagone piombato nel viaggio per Auschwitz. Meno nota è invece la storia di altri due uomini, Carlo Orlandi e Gino Bianchieri, che viene ricostruita nel libro. Luigi Bianchieri l’ammiraglio del Comando navale dell’asse di Biserta, negando le sue navi al boia nazista Walther Rauff, per deportare gli ebrei dai possedimenti francesi del Nordafrica (Algeria, Marocco e Tunisia), salvò la vita in maniera inconsapevole a migliaia di persone. Carlo Orlandi, ufficiale della Regia Marina, comandante della “Camogli”, una piccola nave da trasporto di base a Rodi, spedita fino allo sperduto isolotto di Kamilanisi (mar Egeo), per portare soccorso a 514 ebrei perseguitati dai nazisti e sopravvissuti all’affondamento del “Pentcho”, un vecchio e malandato battello fluviale a ruota partito dal porto di Bratislava, sul Danubio, nell’inverno 1939 e diretto verso le coste della Palestina. In Israele alcuni discendenti dei sopravvissuti del “Pentcho” si sono mobilitati per far riconoscere Carlo Orlandi come “Giusto tra i Giusti”. Vi è poi un capitolo dedicato al cimitero di guerra di Costermano sul Garda, dove sono sepolti migliaia di soldati tedeschi e soprattutto una dozzina di spietati assassini membri delle forze armate tedesche, responsabili della morte di milioni di persone innocenti. Un monumento alla damnatio memoriae, come ci ricorda Nico Pirozzi. Mentre negli altri paesi europei i corpi di questi criminali sono stati tutti cremati e ne sono state disperse le ceneri per evitare, come sta succedendo in Italia, la nascita di sacrari del male.
L’ultimo capitolo è una riflessione sulla memoria corta degli Italiani, e sulla volontà che è in atto di riscrivere la storia e di equiparare vittime e carnefici in nome di una christiana pietas.

Francesco Rubino
Incontri con uomini straordinari
, di Georges I. Gurdjieff
«Capita a tutti di passare un giorno intero a leggere un libro voluminoso senza sapere ciò che l’autore abbia voluto dire, e di scoprire soltanto verso la fine, dopo avere perso del tempo prezioso, già troppo breve per far fronte agli obblighi della vita, che tutta quella musica poggiava su un’infima ideuzza – un niente, per così dire». Non ci mette molto l’autore, appena una decina di pagine, per scagliarsi contro tutta la letteratura contemporanea, per infierire sul giornalismo e sull’insensibilità della civiltà europea ormai troppo lontana dall’intima bellezza delle cose, strozzata dalle grammatiche delle lingue moderne, generando un “catastrofonico concerto generale” espressione del nulla. Beh, che dire, se un libro già comincia così, sicuramente incuriosisce!
Gurdjieff, armeno di padre greco, nato nell’Armenia russa, e per questo russofono, imparerà presto numerose lingue che gli permetteranno di lanciare la sua invettiva alla letteratura europea con cognizione di causa, operando delle minuziose analisi linguistiche, tacciando di povertà d’animo lo scrittore contemporaneo, privo della saussuriana parole prim’ancora che della langue. Il tutto è colpa dell’oblio, perché la modernità ha obliato il vero senso della vita, ha trascurato l’anima in nome della scienza, ha dimenticato il tempo nel quale gli uomini erano capaci di un diverso sentire, come gli Imastun, i quali: «Erano uomini di scienza. Fra le altre cose essi studiavano l’astrologia, ed era per poter osservare i fenomeni celesti sotto angoli differenti che proprio prima del diluvio si erano diffusi per tutta la terra. Ma nonostante le distanze a volte considerevoli che li dividevano, rimanevano in comunicazione costante fra di loro, come pure col centro della loro comunità, che tenevano al corrente delle loro ricerche mediante mezzi telepatici. A tale scopo, ricorrevano ad alcune pizie di cui si servivano come apparecchi riceventi. Una volta in trance, queste captavano e annotavano inconsciamente tutte le informazioni loro trasmesse dagli Imastun. Secondo il punto da dove provenivano le informazioni, queste pizie le scrivevano in uno dei quattro sensi convenuti. Più precisamente, trascrivevano dall’alto in basso le comunicazioni che erano loro indirizzate dai paesi situati a est dell’isola [l’isola di Haninn, dove era il centro della confraternita degli Imastun, secondo dati storici raccolti dall’autore, era situata approssimativamente dove si trova ora la Grecia, ndr]; da destra a sinistra, quelle che ricevevano dai paesi situati a sud; dal basso in alto, quelle che venivano loro da occidente (dove si trovava l’Atlantide e, più lontano, l’attuale America); e da sinistra a destra, quelle che venivano loro trasmesse dalle regioni dove oggi c’è l’Europa». A questo punto, converrete che Gurdjieff tocca argomenti intriganti. Sia pure a volerlo considerare uno scrittore fantastico, cosa che non è. E per chi, come me, ha subito la fascinazione di romanzi come Siddharta di H. Hesse, della poetica di K. Gibran o di R. Tagore, risulterà certamente aver trovato pane per i suoi denti. Lo scritto è una sorta di raccolta di racconti che illustrano alcune esperienze dello scrittore, tracciano piccole biografie di persone diventate suoi amici, “uomini straordinari” che non sono poi così fuori dall’ordinario, caratteristica la quale si addice più al genere di esperienze che vivono i personaggi e non a loro stessi, tranne sporadici casi. Bisognerebbe, a mio parere, approfondire di più il personaggio Gurdjieff, la cui biografia, per quanto fitta di mistero e dicerie, racconta di come abbia creato una comune di artisti vicino Parigi (Fountainbleu), frequentata da artisti del calibro di Katherine Mansfield, e di quanta e quale influenza eserciti ancora oggi su uomini di notevole cultura. Senz’altro non è questa la sede, pertanto non vi annoierò oltre, tuttavia i rimandi, in un ideale ipertesto, possono aprire a interessanti scenari. Per tornare al libro, nel caso questa recensione abbia stuzzicato la vostra curiosità, preparatevi a una serie di avventure che nemmeno il Barone di Munchausen, scoperte archeologiche, cure miracolose, musiche magiche, il tutto riferito come fatti realmente accaduti per i quali l’autore non chiede alcuna sospensione dell’incredulità, anzi, premesso che si è liberi di crederci o meno, promette di fornire più elementi finalizzati a rispondere al senso della vita, creando altre domande, su noi stessi e i nostri “psichismi”, che grossomodo sarebbe il nostro carattere, il quale, secondo Gurdjieff, è solo un’invenzione di un cervello malato come il nostro in questa epoca, una maschera alla quale ci affidiamo che finisce per corromperci e farci perdere il contatto con noi stessi. E per liberarci del nostro carattere, che esiste ma non dovrebbe esistere, dobbiamo adottare la “quarta via”, ma questo attiene a quell’approfondimento di cui ho parlato sopra, che è movimenti e danza come per i Sufi (la Voglio vederti danzare di F. Battiato è un espresso riferimento a Gurdjieff, del quale il cantautore non ha mai fatto mistero), che è un credo sincretistico à la R. Guenon e anche un po’ esoterico, è lo “sviluppo armonico dell’uomo”, insegnato ancora oggi nelle varie sedi sparse in Italia e nel mondo della Gurdjieff Foundation. È, insomma, un mondo ricco di fascino al quale questo libro, invero il più scorrevole di tutta la produzione gurdjieffiana, potrebbe condurvi. Oppure farvi storcere il naso dinanzi a un impostore conclamato, probabile, eppure le sue storie sono appunto storie, senza i tipici orpelli della letteratura d’oggi pesantemente criticati nell’introduzione, semplici susseguirsi di avvenimenti, mai scontati e non privi di genio. Ragion per cui una scorsa a questo bel libro, dall’alto del vostro incrollabile scetticismo, potreste comunque darla.

Sara Spiniello, studentessa del primo anno del Liceo Classico “Pietro Colletta” di Avellino
Io non ho paura, di Niccolò Ammaniti
Un libro che mi è piaciuto molto e che ho letto di recente è stato Io non ho paura di Niccolò Ammaniti. Le vicende sono ambientate nell’estate del 1948 in un paesino del Sud-Italia: Acqua Traverse. Il protagonista è un bambino di nove anni che si chiama Michele Amitrano. Michele e i suoi amici erano soliti fare gare in bicicletta. Un giorno il protagonista si trova a dover scontare una penitenza e quindi, nonostante le sue paure, è costretto ad andare in una casa abbandonata. In quel luogo apparentemente oscuro e pericoloso nasce un’amicizia fatta di rischi ma soprattutto di complicità tra Michele e un suo coetaneo di nome Filippo. Con il tempo Michele capisce che quel bambino era molto più vicino a lui di quanto pensasse, in quanto il padre era uno degli uomini che tenevano come ostaggio Filippo, il quale era figlio di una ricca famiglia del Nord. La cosa che mi ha colpito di più del libro è stata l’amicizia che è nata tra i due coetanei, ma soprattutto il coraggio di Michele che nonostante gli avvertimenti del padre andava quasi ogni giorno a trovare il suo amico e, una volta capita la gravità della situazione, cercò di aiutare Filippo a scappare. Alla fine del romanzo Michele riesce ad aiutare Filippo rischiando la sua vita, infatti il padre gli spara per errore. L’ultima scena descrive come il padre disperato tiene tra le bracca il figlio ferito, vittima di un “gioco criminale” troppo grande e pericoloso.

Sabrina Tirri
Mandami a dire
, di Pino Roveredo
Non parlerò del libro che mi è piaciuto di più nel 2019, ma di un libro che mi è capitato per caso sotto gli occhi. Sullo scaffale dove era sistemato, questo libro non rispettava la rientranza della fila e nel porgere la mano sul dorso per riallinearlo con gli altri, il titolo Mandami a dire ha avuto su di me un effetto particolare, reso ancor più forte dall’immagine stampata sulla copertina: un ragazzo con lo sguardo perso nel vuoto. Mandami a dire: chi avrebbe dovuto mandare a dire? E cosa? In realtà, mi sembrava di essere la destinataria di questo invito, che mi esortava a raccontare un qualcosa di non ben definito. Incuriosita sfoglio le prime e ultime pagine, dalle quali scopro che non si tratta di un unico racconto, ma di 14 testi brevi, e che il titolo della raccolta riprende quello del secondo racconto. Edito nel 2005 da Bompiani – l’edizione letta da me è una quinta dello stesso anno – l’autore, Pino Roveredo, di origine triestina, affida la cura e l’introduzione del volumetto al professore Claudio Magris. La semplicità della scrittura delle 14 storie, definite dal curatore “instantanee epifanie del quotidiano”, tocca questioni profonde, alle quali ci si può avvicinare solo se dotati di animo sensibile ed empatico. Sono storie che nascono da esperienze, in qualche modo, vissute dall’autore stesso, nelle quali si dibattono emozioni contrastanti: dolore, sofferenza, indifferenza, rassegnazione, illusione, sogno, amore. Tutto è narrato con immediatezza, senza inutili descrizioni o divagazioni; si va dritto al punto dell’emozione o della situazione, e di conseguenza tutto diventa struggente e tagliente. I protagonisti di Roveredo sono segnati da un destino crudele, dalla mancanza di coraggio, ma anche da tanta voglia di sognare; il sogno si presenta quindi sia come semplice mezzo di evasione del momento sia come sprone per un futuro riscatto. L’illusione, però, si scontra con un mondo malvagio che a volte non si riesce ad affrontare, e perciò ci si lancia nel vuoto per dire basta alla sofferenza della propria esistenza. Ed ecco il tema della morte che ricorre spesso in questi racconti, come scelta, come processo naturale, come evento improvviso e tragico, come può essere quello di un incidente stradale, che spezza la vita di un bravo ragazzo. Di fronte a questa tragicità ci sono la rassegnazione e il perdersi in un mondo del nulla dei familiari da un lato, e gli inviti al coraggio da parte degli amici dall’altro. Al dispiacere più grande che possa provare un genitore per la morte di un figlio se ne aggiungono altri: si va dalla tristezza di un uomo che ha vissuto in simbiosi con il lavoro ed ora è costretto a lasciare per anzianità di servizio, alla sofferenza di un padre che avrebbe voluto vedere i suoi due figli sposati e che invece hanno preso altre strade; ci si imbatte poi nel mondo del pettegolezzo, pronto a mistificare la realtà della brava gente, in quello della disillusione e del rimpianto dei giovani quarantenni, per finire in quella che sarebbe dovuta essere l’età più felice, quella dei bambini, che sono invece vittime dello sfruttamento degli adulti, gli ultimi nella catena dei lavori umili.  Al di là di queste tematiche che ritroviamo nei diversi racconti, molto forti e toccanti, mi vorrei soffermare sui primi due, partendo dal secondo. Mandami a dire, che come abbiamo detto, dà titolo all’intera raccolta è quello forse più emozionante. Mandami a dire è l’esortazione che un uomo rivolge alla sua amata, che ha conosciuto in un manicomio, e della quale ha perso le tracce dopo essere stati dimessi. L’uomo rimpiange i momenti trascorsi all’interno del manicomio – struttura conosciuta molto bene dall’autore, e strano a dirsi, per lui questo è un luogo di felicità, di benessere e di libertà nonostante le torture e i pestaggi a cui veniva sottoposto. Egli ricorda con tenerezza quando riusciva a vedere la sua donna affacciata alla finestra, e ricorda con orgoglio la sua dimostrazione di amore, sfidando sia la sorveglianza sanitaria sia il gelido inverno: la sua folle corsa al centro del cortile coperto di neve per cogliere l’unico fiore bianco cresciuto, e donarlo alla sua amata. Il primo è invece, quello a mio avviso, più poetico, che ha tanto della vita di Roveredo, essendo figlio di sordomuti. Parlare con le mani ascoltare con gli occhi trasmette qualcosa di grande, di incomprensibile; pensare a degli occhi che ascoltano e a delle mani che parlano, a questo capovolgimento e a questa mescolanza di sensi, rende noi uomini, piccoli, incapaci, anormali. È il silenzio, il mondo dove Roveredo impara a vivere e comprende che i sordomuti siano dotati di un sesto senso. Essi “viaggiano, vivono, riposano, giocano e si rattristano, portandosi per sempre dietro l’abbraccio infinito del silenzio: per loro, il rumore è un affare degli udenti … Nel mondo del silenzio è diverso, lì, per comunicare, bisogna avere l’educazione della presenza e la cortesia dell’attenzione”. Su questo linguaggio, che ho avuto modo di intravedere qualche volta di sfuggita, per strada o in TV, mi sono soffermata in questi giorni con il 70° Festival di Sanremo: una canzone è stata presentata, accompagnata proprio dal linguaggio dei segni. Allora, ho azzerato il volume del canale, e mi sono abbandonata ora alla più energica ora alla più mite gestualità del silenzio.