Il libro che ci è piaciuto di più nel 2018

Date:
13 Febbraio 2019

IL LIBRO CHE CI E' PIACIUTO NEL 2018

Da queste stesse pagine, un anno fa, rivolgemmo un invito agli amici della Biblioteca di Montevergine a segnalare un libro letto durante l’anno. Avendo allora ricevuto alcune (poche, ma molto sentite) riflessioni, replichiamo l’iniziativa anche per il 2018.
La notizia che, com’è nostra consuetudine, abbiamo diffuso anche attraverso i canali social ufficiali della Biblioteca, ha ricevuto molti riscontri. Tra questi, l’autore di un romanzo pubblicato nel 2016,
Hiperionidi, l’alba degli dei, invita chi abbia letto il libro a scriverne nella nostra rubrica. Volentieri accogliamo l’esortazione e pubblichiamo un breve commento, insieme con un altro che, sullo stesso libro, nel frattempo ci è pervenuto.

Seguono poi le recensioni che abbiamo ricevuto, trascritte in ordine alfabetico sotto il cognome del recensore.

La locandina del Libro 2018 è stata realizzata dal collega Gennaro Vipraio Tiberi.


Hiperionidi, l’alba degli dei (Editrice MonteCovello, 2016) è un denso romanzo di Marco Parisi, il quale si interessa professionalmente di tutt’altro e si dedica alla scrittura per passione. È quella che traspare evidente dalla pur impegnativa lettura delle poco meno di 500 pagine di Hiperionidi, e che sostiene con tenacia un progetto articolato e complesso di cui questo romanzo non è che la prima parte.  In epigrafe è posta una lunga citazione dalla Teogonia di Esiodo, della quale segnaliamo qui la recentissima pubblicazione di una nuova edizione, per i tipi di Mondadori nella prestigiosa collana Scrittori greci e latini, a cura di Gabriella Ricciardelli: segno della modernità del poema che, nella recensione di Carlo Franco nel supplemento domenicale «Alias» del quotidiano «il manifesto», «nella vertigine della lista … fa inorridire», ma è ancora capace di ispirare romanzi, come ben testimonia Parisi. Sul plot narrativo trascriviamo dalla quarta di copertina: «Venuti a conoscenza della condanna definitiva nel Tartaro del loro padre Hiperione a seguito di una congiura ordita da Astreo, gli hiperionidi Aurora, Elio e Selene partono da Corinto, via pelago (mare), verso il “Meridiano zero”, loro dimora originaria, nonché residenza del titano, per liberarlo dalla prigionia».
Il romanzo utilizza un artificio narrativo certo non originale, ma sempre molto efficace: il ritrovamento di un manoscritto da parte del monaco ortodosso cristiano Marcus Parisopulos nel muro alle spalle di uno scaffale della biblioteca del monastero in cui egli vive; ne è autore, veniamo a sapere, il famoso storico Erodoto di Alicarnasso. Il manoscritto suscita ben presto l’interesse di alcuni suoi confratelli, dei quali tuttavia non è ben chiara l’intenzione di che cosa farne; sicché, ad ogni buon conto, ad evitare rischi, Marcus decide di nascondere il manoscritto e si dispone al tempo stesso ad una sua dettagliata divulgazione. Quindi dal capitolo zero prende avvio la vicenda che porterà gli hiperionidi ad affrontare un viaggio pericoloso e dagli esiti incerti, al quale peraltro di buon grado si dispongono per aiutare il padre. Dalla complessità della vicenda ne viene un po’ sacrificato il piano narrativo, per cui non è sempre chiaro (per lo meno così è apparso a noi) a chi riferire il punto di vista. Per esempio, ad un certo punto (a p. 21) viene citato Dante Alighieri e il celebre discorso di Ulisse ai compagni («… fatti non foste a viver come bruti…»). Se in questo punto è l’autore del manoscritto a parlare, è per lo meno anacronistica la citazione dantesca, benché sia pertinente in quanto a tematica (l’esortazione a continuare il viaggio), anche dando per scontato che Erodoto conoscesse Omero; d’altra parte, non è chiaro se invece a parlare sia Marcus, del quale non sembra esplicitamente contestualizzato il periodo in cui vive, salvo che quando è sicuramente lui a parlare (un inserto in corsivo a p. 340) sembra far riferimento a tempi molto recenti (si cita la «funesta crisi economica che sta mettendo in ginocchio il Paese…»), in cui per la verità si fatica a immaginare un monastero ai piedi del monte Olimpo nella cui biblioteca si possa trovare oggi un manoscritto del 400 a.C. … Circostanza questa che una più coerente collocazione avrebbe trovato in un’opera completamente di fantasia, o di fantascienza.
Tuttavia, crediamo che questo anacronismo trovi spiegazione nel vastissimo intreccio che sta alla base del romanzo; immaginiamo infatti l’autore alle prese con schemi preparatori che si intersecano e si sovrappongono intrecciando nomi, parentele, dati storici e dati geografici… Un rompicapo nel quale sarà stato sicuramente molto faticoso orientarsi e per risolvere il quale era necessario forse un lavoro di editing veramente certosino, da monaco, appunto. Oppure poteva farsene carico l’editore, che, a dispetto della dichiarazione d’intenti di p. 3 («prendiamo “per mano” i Nuovi Autori …»), non sembra aver riposto particolare cura nella pubblicazione e nella distribuzione di questo romanzo. Per esempio, il libro non si trova su IBS, né su Amazon, né su eBay; forse ci sbagliamo, ma nelle biblioteche pubbliche è presente solo al catalogo della Biblioteca di Montevergine, cui è stato donato dall’autore, e manca anche alle due biblioteche nazionali centrali (Roma e Firenze), dove pure dovrebbe pervenire per diritto di stampa tutto ciò che si stampa in Italia. Il romanzo sembra disponibile, nella versione cartacea, soltanto sul sito dell’editore e non è dato sapere che tiratura abbia avuto. Inoltre, molti sono i refusi e gli errori che sono sfuggiti; un libro di ben 464 pagine aveva bisogno, per restare in tema, di Argo dai cento occhi per sperare in una correzione di bozze che fosse se non proprio accurata, per lo meno accettabile. Concludiamo segnalando che la chiusura del manoscritto a p. 457 sembra sbagliata; è cioè perlomeno strano, dopo che Erodoto ha fatto parlare addirittura Apollo (il quale, com’è suo costume, ha dato prova della grande considerazione che ha di sé), chiudere con la formula in inglese che si trova sui titoli di coda dei film (te be continued…).
Il secondo volume della saga degli hiperionidi sia più fedele all’idea generale che grandiosamente sta alla base del progetto, e la svolga in maniera più attenta (DDF).


Rosalba Capone
Resto qui, di Marco Balzano
Il libro Resto qui di Marco Balzano l’ho letto tutto d’un fiato sia per l’ambientazione, luoghi che sempre mi hanno colpito durante i brevi soggiorni in Alto Adige e precisamente nel Sudtirolo, sia per la scelta dei comodi caratteri tipografici, che ad una certa età fanno la differenza. A colpire, dalla copertina, è senz’altro il campanile della chiesa costruito nel XIV secolo (1357) che svetta in mezzo al lago artificiale che nel 1950 sommerse i paesi di Curon e Resia, muto testimone ormai del dolore causato a quelle popolazioni, oggi simbolo del paese di Curon, ricostruito ai margini del lago artificiale, e della Val Venosta, sottoposto a tutela dall’Assessorato provinciale ai beni culturali dell’Alto Adige. Ma molti sono i laghi artificiali presenti in quelle valli e diversi paesaggi naturali ne hanno fatto le spese per costruire centrali idroelettriche e non è detto che non ne esistano altri in varie parti della nostra bella Italia e anche altrove, adesso come allora e altri ancora ne esisteranno a fronte di un’energia sostenibile. Altro tema ricorrente e non del tutto risolto, in questa parte d’Italia, è senz’altro il forte attaccamento alle proprie radici. Radici fatte di confini, lingua e costumi. Nelle targhe poste a indicare i luoghi ci s’imbatte in una lotta disperata a cancellare il nome in italiano per ripristinare quello tedesco e viceversa.  Non di rado, nei giorni di festa, i piccoli e non delle famiglie vestono abiti tipici del Tirolo presenti in diversi negozi e persino in mercatini settimanali delle varie zone valligiane, a prezzi non sempre economici. La storia, sia pur romanzata, di Resto qui prende vita proprio in un tipico paese sudtirolese, Curon appunto, e in un periodo storico che va dall’ascesa del Fascismo agli anni Sessanta del secolo scorso. La storia è raccontata, in prima persona, da una donna di madre lingua tedesca, Trina (Caterina) di professione insegnante. Trina e la sua famiglia non sono italiane ma nemmeno tedesche, sono sudtirolesi. Quando nel 1921 Mussolini impone l’insegnamento dell’italiano e cambia i nomi alle strade e ai luoghi, Trina è costretta, aiutata dal prete del paese, padre Alfred, a diventare insegnante clandestina nei masi, nelle cantine, nei fienili, per trasmettere ai bambini i propri usi e costumi. Si sposa con Erich Hauser, contadino, legato alla sua terra in maniera simbiotica, da cui ha due figli: Michael e Marica. La guerra incalza e nel 1939 Hitler e Mussolini propongono ai valligiani la grande opzione. Il paese quindi si divide in optanti e restanti. Molti sudtirolesi guardano a Hitler come al loro liberatore, persino la famiglia di Trina si spacca: la figlia Marica viene portata in Germania dagli zii e non se ne sa più niente, il figlio si arruola volontario nell’esercito tedesco entrando in conflitto con il padre contrario a tutte le dittature, Trina ed Erich si nascondono, clandestina l’una e disertore l’altro, in montagna. Finita la guerra, rientrano in paese quando ormai l’Italia è una Repubblica, con un Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana un trentino, Alcide De Gasperi, a cui ci si rivolge, senza risultato, per un intervento. Ma la Montecatini ha ripreso la costruzione di un’enorme diga iniziata prima della guerra, ed è proprio in questi anni di apparente ritorno alla normalità che si consuma la fine del paese. Il progetto della diga, più volte iniziato e poi interrotto, questa volta va avanti. Trina e suo marito Erich, ognuno come può, si oppongono, mettendo in allarme i loro valligiani, il parroco del paese, padre Alfred, riesce persino ad ottenere un’udienza a Roma, da Papa Pio XII. Tutto inutile: Curon è destinato a scomparire sotto il peso dell’acqua, rimarrà solo quel campanile, simbolo del paese che non c’è più.

Angelo Cutolo
Non uno, ma ben cinque i libri letti nel 2018 di cui faccio menzione, perché se li ricordo è perché hanno lasciato in me un segno in più degli altri che ho letto, per cui mi limito solo a qualche pensiero su ognuno, che magari faccia da sprone a leggerli o rileggerli anche per altri lettori. Alcuni di essi: inizialmente stavo per scrivere di loro, anche se poi ho corretto loro con essi, mi piace sottolinearlo, in quanto secondo me un libro è un essere che ci apre una finestra, una porta o un portone sul mondo a seconda del suo valore. Ma veniamo ai libri. 

I sette Arcangeli, di Stanzione e Alvino, libro dedicato al culto degli Arcangeli e l’evoluzione dello stesso, mi ha permesso di scoprire quanto siano presenti nella vita di alcuni santi e quanto sia la Campania impregnata di questo culto, basti ricordare la basilica di Pompei, in cui vi è un altare e un dipinto, dedicati ai sette Arcangeli per volere di Bartolo Longo, fondatore del santuario di Pompei e promotore di tale culto. Anche nell’ex convento di Santa Chiara a Solofra (AV) vi è una tela raffigurante i sette Arcangeli. Tra i santi campani anche la compatrona napoletana, santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, era devota ai sette Arcangeli e possedeva anche un’immagine della Madonna col Bambino Gesù in braccio e con intorno gli Arcangeli. La lettura di detto libro ha suscitato in me un forte interesse nel riscoprire la devozione verso gli Arcangeli, nonché i luoghi in cui erano venerati e come lo erano.

Leonardo da Vinci, il genio universale mi ha catapultato nel tardo Quattrocento e il primo Cinquecento e con Leonardo, dato lo stile espositivo, mi ha fatto immaginare la cittadina di Vinci, Firenze, Mantova, Milano, Amboise e le altre località in cui ha vissuto, nonché le botteghe in cui ha lavorato. L’autore presenta Leonardo, artista, architetto, scienziato, anche quale uomo con i suoi vizi e difetti, e – come scrisse Giorgio Vasari – «dotato di straordinaria bellezza fisica», che seppe ben utilizzare a suo favore. L’ambiente di formazione e di lavoro, la cerchia che si frequenta è fondamentale per migliorarsi, per sviluppare al massimo le proprie attitudini e svilupparne delle altre, nonché ampliare gli interessi, così come per Leonardo lo sono stati i maestri, i compagni di bottega, ma è d’uopo anche il non fermarsi mai, né per l’età avanzata, né per i malanni o acciacchi; concludo con una frase dello stesso Leonardo da Vinci a proposito del “non fermarsi”: «Sì come il ferro s’arrugginisce sanza esercizio e l’acqua si putrefà o nel freddo s’addiaccia, così lo ‘ngegno sanza esercizio si guasta».

Pagliuchella, di Edmondo Marra, a mo’ di romanzo dialogato, presenta il fenomeno del brigantaggio post Unità d’Italia in Irpinia: i fatti accaddero a Volturara Irpina (AV) nel 1861; un modestissimo contadino diventa a sua insaputa, ma a causa delle vicende, un brigante e come tale muore, diventando un personaggio, un martire delle vicissitudini. È il Governo che determina cosa è legale e cosa no, condizionando la società che amministra ed è il vincitore che determina il Governo: la Storia interviene in modo pesante nella vita.

Avellino … città termale mancata, di Andrea Massaro, piccolo libretto che descrivendo la figura di Ferdinando Landolfi e il suo progetto di realizzare una stazione di bagni pubblici, perché tale rimarrà, tratteggia via De Sanctis e il tratto di via dei Due Principati insistente nei pressi di Piazza Libertà nel primo Novecento, in piena Belle Époque. Anche questo è un caso in cui la Storia e il Governo condizionano le vite e scelte. Il progetto di Landolfi inerente la costruzione di una stazione di bagni pubblici lungo la via dei Due Principati nei pressi di Piazza Libertà è ben accettato dall’allora Consiglio Comunale di Avellino, ma dopo una prima richiesta di integrazione della pratica di autorizzazione, nonostante sia stata ottemperata, non si ha più notizia della stessa, perché persa nei meandri degli Uffici e del tempo.

Il pellegrinaggio a Montevergine, di Giampiero Monetti, descrivendo tale evento nei secoli, mostra l’evoluzione degli usi e dei costumi della società non solo religiosa, ma anche civile. Con l’avvicinarsi alla società del XXI secolo, le tradizioni tendono a scemare a causa della velocità sia dei mezzi che dell’evoluzione, ma poi si va alla ricerca delle tradizioni etnografiche, delle antichità.  L’uomo corre, ma non ha più tempo e modo di assaporare ciò che fa, ma soprattutto viverle.

Domenico D. De Falco
Il cadavere ingombrante
, di Leo Malet (Fazi editore 2018)
Leo Malet è un grande. Nato nel 1909 e morto nel 1996 a Parigi, è considerato il maestro del noir francese, e non solo. Il suo primo libro che ho letto è stato La vita è uno schifo, acquistato alla cieca in libreria perché irresistibilmente attratto dal titolo, la cui edizione italiana di Fazi del 2000 ha in copertina un’iconica Virna Lisi in una foto di scena da La donna del giorno. Fu un’autentica scoperta, nonostante il titolo potesse suscitare più d’una perplessità. La vita è uno schifo costituisce il primo capitolo della cosiddetta Trilogia nera, insieme con Il sole non è per noi e Nodo alle budella.
Il grande piacere di leggere Malet è poi continuato con la sua famosissima serie de I misteri di Parigi (più famosi dei misteri di Eugène Sue), dedicata a ciascuno degli arrondissement della capitale francese. Protagonista l’investigatore privato Nestor Burma, che si muove sempre al confine della legalità; il suo vezzo di fumare la pipa serve anche, in realtà, a stemperare la puzza dei cadaveri negli obitori che, per le sue indagini, è spesso costretto a frequentare.
Il cadavere ingombrante (titolo originale L’envahissant cadavre de la plaine Monceau, 1959) è il penultimo dei volumi di Malet pubblicato da Fazi nel 2018, nella collana Darkside (l’ultimo è Nestor Burma e il mostro). Anche qui Burma s’imbatte in più di un cadavere, ad iniziare dalla signora Désiris (un nome che per Burma puzza di «nome di battaglia da cocotte, da direttrice di agenzia matrimoniale o sotto-maîtresse di postribolo chic») e da suo marito, Charles Désiris. Frettolose indagini di polizia liquidano il caso in un’ipotesi di omicidio-suicidio. Ma Burma non ne è convinto, sicché dopo tanti altri avvenimenti, colpi di scena e  – ça va sans dire – altri morti, la questione si svela infine nella sua complessità, scoprendo addirittura un traffico di diamanti, tre dei quali rimangono per caso nella tasca di Burma, che però non li trattiene per sé.
L’incipit di questo romanzo è un capolavoro di sintesi di tutto quel vasto campionario di suggestioni, emozioni, eccitazione e luoghi comuni cui nessuno riesce a sottrarsi quando si pensa a Parigi: «È una di quelle luminose mattinate di marzo quasi primaverili, che Parigi, possedendone il segreto, offre sovente, malgrado ciò che se ne dice». Per averne conferma, provate a mettervi nel mezzo dell’Esplanade des Invalides, guardando il Musée de l’Armée, rovesciate la testa all’indietro e guardate il cielo: se non sarà coperto, vedrete un cielo azzurro e grande, molto più che altrove.

Giuseppe Macchia
Forse il “Giorno della Memoria” dovrebbe essere moltiplicato fino a diventare “i giorni” della memoria: a tale risultato mi sembrano mirare le parole lapidarie dello scrittore russo Aleksandr Solzenicyn, in epigrafe dell’Arcipelago Gulag: «Dedico questo libro a tutti coloro cui la vita non è bastata per raccontare. Mi perdonino se non ho veduto tutto, se non tutto ricordo, se non tutto ho intuito».
Oggi più che mai bisogna esseri vigili, in momento di rinascita di nazionalismi, di disgregazione sociale e di odio per il diverso. Tutto va ricordato, i luoghi, il tempo, gli affetti persi e soprattutto i nomi.
Provo a farlo attraverso due libri. Come accade spesso, un libro porta a leggerne un altro; così mi è accaduto con Io che vi parlo, un’intervista di Giovanni Tesio a Primo Levi, che mi ha condotto ad un altro libro di Levi, Il sistema periodico.
Gli elementi della tavola di Mendeleev, diventano il catalizzatore reagente attorno al quale Primo Levi costruisce 21 racconti. In Argon, il primo, è narrata la stanzializzazione dei suoi avi in Piemonte, e il testo è caratterizzato dal gioco linguistico e dal connubio tra la lingua ebraica e il dialetto piemontese.
Molti sono dedicati ai suoi amici più cari, conosciuti prima di essere deportato ad Auschwitz, tra cui l’amico fraterno di Ferro, Sandro Delmastro, catturato dai fascisti, il primo a cadere del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione, ucciso da un carnefice-bambino della repubblica di Salò: «… di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino». Segue in Oro, o dovrei dire in “Oro-Amore” perduto, un accenno a Vanda Maestro, una dei sette amici di Torino, anch’ella chimica, ritrovata nel breve periodo valdostano da partigiani e poi a Fossoli. Morta nel Lager, Levi ne tratteggia un ritratto d’amore lancinante in Io che vi parlo: «Per me era proprio una situazione disperata, essere innamorato di una persona che non c’era più, in più averne provocato la fine e questo penso che si senta …»; peso che genera in Levi un ulteriore senso di colpa, una ferita viva che lo accompagnerà fino alla morte. C’è ancora un’ombra di Auschwitz che attraversa Vanadio, con cui Levi cerca di fare i conti, e c’è poi il sapore della libertà del dopoguerra, la gioia di ritornare a lavorare, la timidezza, l’amore per la montagna e persino l ‘ironia, che emerge da altri racconti generando una forza morale senza precedenti.
Il libro si conclude con Carbonio, «… elemento della vita …», un inno alla vita appunto, allo scrittore e al chimico.

Francesco Rubino
L’incendio, di Mario Soldati (Milano, Mondadori, 1981)
La lettura de L’incendio di Mario Soldati, del quale ho sempre lodato il cinema asciutto e popolare, fu dovuta a un incontro casuale con una polverosa libreria in una stanza d’albergo durante un soggiorno uggioso che mi costrinse dentro. M’incuriosì l’invito di Calvino in quarta di copertina, che aveva lodato questo libro, facendo notare come L’incendio si leggesse d’un fiato (cit.), e forse era il caso che tirassi su il fiato e che sprofondassi nella lettura.
La storia è effettivamente abbastanza godibile, la serie di eventi che si dipana lascia il tempo al lettore di riflettere e lo ingolosisce il giusto perché prosegua, non si dilunga troppo nelle descrizioni dei luoghi e dei personaggi, anche l’analisi psicologica è raccontata più dai fatti che dalle elucubrazioni dell’autore.
Dai tratti autobiografici (anche se non lo è, o forse sì?), il libro racconta, attraverso la voce narrante dell’ingegnere Vitaliano Zorzi, uno spaccato borghese dell’inizio degli anni Sessanta, sebbene sia edito nel 1981. L’arte, l’amore (anche quello meno ordinario) e l’amicizia, ma anche i soldi, il gioco d’azzardo e il buon cibo, sono tra loro inestricabilmente legati, in una trama ricca d’intreccio e che non si racconta in due parole: l’ingegner Zorzi, vincente giocatore di carte e frequentatore della Venezia bene di quegli anni (nella quale capita per colpa della sua storia con Emanuela che di lì a poco finirà), amico del critico d’arte Marinoni, s’invaghisce delle opere di tale Mucci, geniale pittore squattrinato e scialacquatore, in particolar modo della tela dall’omonimo titolo, L’incendio.
Le vicende si svolgono tra Venezia, Torino e Milano, oltre alle incursioni del Mucci in Congo, da cui non si avranno più notizie.
Si narra di come nasca un’amicizia sincera e leale tra il protagonista e Mucci, il quale è il vero centro gravitazionale dell’intera opera, appassionato artista dall’arte consumato, invaghito di Fernanda (per Marinoni somigliante ai soggetti femminili di Cranach, pittore risorgimentale tedesco del XIV secolo), mistress involontaria e d’antan, che si presta al ruolo solo per condiscendere la cupidigia del pittore. Già solo per questo un libro coraggioso, senza contare le altre tresche insolite che attraversano il racconto, di sicuro non conformi al pensiero dell’Italia tradizionalista di quegli anni.
Ed è forse per questo che il libro venne dato alle stampe vent’anni dopo. Oppure fu a causa della presunta doppia stesura, come accennato nell’introduzione, perché dalla trama popolata di personaggi facilmente associabili a persone reali di quel tempo, e dalla composizione non poco intrecciata.
Interessa soprattutto, come detto, di Mucci, di come il suo genio sia incostante, infiammato da passioni mai durature, eppure vero, forse il più vero di tutti, che spesso parla in dialetto veneziano, con le sembianze di un fauno (tanto che per Vitaliano diventa šumski bog, che in slavo vuol dire “dio del bosco”), un diavolo buono, come per la sua arte compresa tra il divino e il diabolico.
C’è romanticismo ne L’incendio. Ce n’è meno di quello che ricorre spesso nel cinema dell’autore, non tanto tra le persone, se si fa salva la relazione che intercorre tra il protagonista e la sua amata Emanuela, personaggio artificioso e non molto riuscito, come la storia d’amore d’altronde, che andrà in sposa a un altro. È quasi nullo tra Mucci e Fernanda, un connubio tra l’infantile e il masochistico, e nemmeno nell’amicizia tra il pittore e Vitaliano, più leale che malinconica o sdolcinata. È dell’arte che l’autore scrive in chiave romantica, non slegata dall’aspetto economico ma comunque non di questo succube, come se il vero collante tra acquirente e compratore, oltreché l’amicizia, sia l’amore incondizionato per le tele di Mucci, che causano al protagonista una vera e propria sindrome di Stendhal (peraltro raccontata molto bene quando egli s’imbatte nel quadro che dà il nome al romanzo). E poi niente più. Le altre relazioni sono fredde e occasionali, pervase da posizioni di comodo o da affinità più corporee che spirituali, dettate da istanze economiche o corrispondenti a più ordinari traffici d’influenze: un noto critico d’arte, Marinoni, potrebbe rivalutare, e non di poco, le opere del Mucci; l’amante scoperto, Rudy, figlio di Fernanda, non disdegna la violenza e inoltre vive amorazzi a dir poco ambigui.
A conti fatti, tutto muore: l’amore tra Mucci e Fernanda (oltre che Mucci stesso), quello del protagonista con Emanuela, e soprattutto le città. Ecco, in questo l’opera si distingue da tante altre coeve, quando descrivendo la Torino in cui ritorna dopo diversi anni (anche in questo è rilevabile una traccia autobiografica, Soldati è di Torino), si legge di come la città fosse stata violentata dalla recente industrializzazione, di come tutto ciò che gli era stato caro sino ad allora adesso versasse nel disuso e la fatiscenza.
Non povero di colpi di scena, nonostante sia pervaso da toni cupi e alle volte resti di difficile interpretazione per via del veneziano insistito parlato da Mucci, il romanzo si lascia davvero leggere d’un fiato. Esso, malgrado sia risultato inviso a gran parte della critica del tempo, è un’opera che senz’altro consiglio e che va rivalutata, non foss’altro per scoprire il Soldati scrittore, che va letto se si ama la letteratura italiana della seconda metà del Novecento; e poi perché, se si è amato Calvino o Buzzati, o il realismo decadentista del primo Moravia, questi è un autore parimenti spiccio che punta all’intreccio senza fronzoli. In sintesi, lo scritto risulta incompiuto, dal finale deludente se considerate le ottime premesse, eppure piacevole e mai stucchevole.
L’incendio, insomma, nella sua efficacia e scorrevolezza, non privo di autocompiacimento e sicuramente perfettibile, dal gusto vintage, è un libro da leggere al riparo dalla pioggia e con la televisione spenta, senza dar troppo conto alla critica da stelline su internet.

Bruno Simeone, tirocinante presso la Biblioteca di Montevergine nel periodo novembre 2018-gennaio 2019
Un atomo di verità, il caso Moro e la fine della politica in Italia, di Marco Damilano (Feltrinelli, 2018), non è il solito libro utile a orientarci nella complessa vicenda che fu “l’affaire Moro” ma un’analisi su cosa abbia significato quel sequestro e quella morte per la politica e la società italiane. Sottrae all’immaginario collettivo l’immagine di un Aldo Moro “caso” per analizzarne, tramite i suoi scritti e la sua semplice figura, quella di uomo che meglio di tutti aveva capito le debolezze del potere. I sentimenti di quegli istanti: la paura, l’alienazione e lo spaesamento di un intero sistema, che si accorge di essere debole e impreparato e che risponde in maniera scomposta, c’è chi corre a scuola a prendere i propri figli per tornarsene a casa e chi decide di scendere in piazza. Un cammino in ciò che poteva essere e verso il cambiamento percepito, che superava il momento presente, con la visione di non poter costruire una fase nuova con una cancellazione istantanea della vecchia classe dirigente, ma attraverso una strada più lunga e meno spettacolare di un cambiamento di mentalità e di una comune assunzione di responsabilità, della politica e della società civile. Un Paese e una struttura, proiettata verso un punto di non ritorno, analizzato anche attraverso gli scritti di Pier Paolo Pasolini, in particolar modo ne L’articolo sulle lucciole (o Il vuoto di potere, Corriere della Sera, 1 febbraio 1975): “I valori nazionalizzati di colpo non contano più […] a sostituirli sono i valori di un nuovo tipo di civiltà”, il suo insistere su un “vuoto” della classe politica democristiana, su un “potere reale che procede senza loro: ed essi non hanno più nelle loro mani che quegli inutili apparati, che di essi, rendono reale nient’altro che il luttuoso doppiopetto”. Con il sequestro Moro, verrà a mancare uno dei protagonisti della scena politica italiana, l’altro, Enrico Berlinguer, si troverà solo e di lì a poco morirà, arriverà il periodo delle grandi stragi di Mafia, di Tangentopoli e dell’ “esilio” di Craxi, il primo governo Berlusconi e quell’atomo di verità diventerà sempre più un pensiero lontano, una questione da archiviare e con cui fare i conti solo nel momento dei suoi anniversari. Forse è davvero Moro “il punto irriducibile di contestazione e alternativa”, è davvero quella la fine della Prima Repubblica, la linea di demarcazione tra due tempi, “Via Fani è stato il luogo del nostro destino. La Dallas italiana, le nostre Twin Towers”. Damilano si sottrae alla logica dei sotterfugi, dei mandanti nascosti e ci regala una panoramica complessiva di quei periodi per capirne la continua influenza e trovare una spiegazione, un momento di rottura con la degenerazione dei nostri giorni.

Sara Spiniello, studentessa della Scuola media “Dante Alighieri” di Avellino
Il giro del mondo in 80 giorni, Jules Verne (Milano, Bur ragazzi, 2014)
Il protagonista del romanzo di avventura di Jules Verne Il giro del mondo in 80 giorni è Phileas Fogg: un gentiluomo inglese. La storia si apre con il protagonista che assume un nuovo maggiordomo: Passepartout. Il signor Fogg era solito andare nei club più frequentati dagli inglesi. Il “Reform Club” era il locale che raggiungeva tutti i giorni a piedi e nel quale si incontrava con i sui compagni. Un giorno mentre era in questo club arriva la notizia che era stata aperta una nuova linea ferroviaria in India che permetteva di viaggiare intorno al mondo in 80 giorni. I suoi compagni non credevano che fosse possibile, allora nasce una scommessa: se Phileas Fogg fosse riuscito a girare il mondo in 80 giorni avrebbe vinto 20.000 sterline, altrimenti le avrebbe dovute dare ai suoi compagni. Il giorno dopo ha inizio il viaggio che sarebbe dovuto finire a dicembre. Dopo essere arrivato a Brindisi insieme al suo maggiordomo, Fogg si imbarca per arrivare a Bombay facendo tappa a Suez dove incontra il detective che sta indagando su una rapina alla Banca d’Inghilterra. Il detective crede che Fogg sia responsabile di questa rapina quindi inizia a seguirlo. Arrivati a Bombay si dirigono verso Calcutta scoprendo però che la costruzione della ferrovia non è ancora terminata quindi devono continuare cavalcando un elefante. Durante il tragitto con l’elefante incontrano una marcia funeraria e decidono di salvare la ragazza che sarebbe dovuta essere uccisa.  La ragazza, di nome Auda, li accompagnerà durante tutta la loro avventura. Dopo vari imprevisti in 80 giorni i tre riescono a girare il mondo. Tornati a Londra, Phileas Fogg vince le 20.000 sterline anche se rimane nelle stesse condizioni economiche di prima della partenza perché durante il viaggio ha già speso tutti i soldi che ha vinto, ma comunque è stata una bellissima esperienza perché ha trovato l’amore della sua vita: Auda.
Una delle parti che mi ha colpito di più è stato il lieto fine della storia perché ad un certo punto Fogg credeva che fosse troppo tardi per vincere la scommessa, ma invece mancavano ancora delle ore prima della fine del 21 dicembre quindi ha vinto la scommessa e si è anche sposato!
Consiglio questo romanzo a chi ama leggere i romanzi di avventura e a lieto fine. È una storia molto interessante e la consiglio volentieri.

Lucia Cristina Tirri
Questa nostra Italia. Luoghi del cuore e della memoria
, di Corrado Augias (Torino, Einaudi, 2017)
Nell’interessante libro, Questa nostra Italia. Luoghi del cuore e della memoria, Corrado Augias fornisce una singolare lettura di luoghi significativi della nostra Italia con l’intento di cogliere l’essenza del nostro Paese e dei suoi abitanti: quei tratti che ci rendono immediatamente riconoscibili ovunque nel mondo. Questo memoir risponde al bisogno di rintracciare, attraverso ‘luoghi del cuore e della memoria’, personale e collettiva, una qualche forma di italianità. Il percorso autobiografico e memoriale dell’autore assume la forma di un interessante viaggio attraverso la nostra penisola. Augias sostiene che “per quanto al nostro paese non siano certo mancate tragedie con conseguenze vaste e profonde, non si è mai stati in grado di farne esperienza collettiva, di dargli quella tal fisionomia che le renda degne di memoria o che ne consenta la rappresentazione.” Si può, infatti, consolidare la nostra memoria nazionale attraverso una riflessione e una rivisitazione dei nostri luoghi. Questa piacevole lettura può farci riflettere sui punti di forza (il turismo) e sulle debolezze del nostro paese, e può rappresentare un antidoto alla sfiducia che sembra connaturare la nostra complessa epoca storica. Infatti, Augias sostiene: “È dal passato, dal senso della storia, che può arrivare l’antidoto alla sfiducia, ecco perché ho scritto questo libro”, in quanto “quando si arriva avanti negli anni la tentazione di raccontare ciò che s’è visto, fatto, lasciato diventa forte, in un modo o nell’altro bisogna darle ascolto.” “Il nostro paese”, continua, “pieno di meraviglie non è venuto su dal niente: è stato costruito, cesellato da generazioni di italiani come noi, che hanno patito le stesse incertezze e paure di cui soffriamo noi, anzi in certi periodi paure peggiori delle nostre. Guardateli quei paesini arroccati sull’ultima balza di un colle per rendere più difficile la strada ai predoni, o le torri alte, chiuse, con feritoie al posto delle finestre, case prigione per meglio resistere agli assalti.” Nel suo percorso memoriale Augias si affida prevalentemente a scrittori e poeti perché scorge in loro la capacità di cogliere l’essenziale delle varie epoche storiche. Inoltre, poiché la nazione italiana s’è formata in primo luogo sulla lingua, la letteratura da noi, prima ancora che uno strumento di comunicazione o veicolo culturale, va considerata come un fattore identitario. L’identità italiana, intesa come una fisionomia profonda del nostro paese, va cercata principalmente nelle città e nei borghi, nelle campagne e nei castelli, nelle pieghe del tempo e nell’ombra di certi passaggi dimenticati. Ci rassicura Augias, l’italianità “se si scruta con attenzione, talvolta si riesce a vederla balenare”. Questa lettura di significativi spazi italiani propone nuovi orizzonti anche per un tipo di turismo indirizzato alla ricerca di autenticità e alla scoperta delle stratificazioni che caratterizzano i mille paradossi del nostro Belpaese. Ordinario e straordinario, vita quotidiana e vita letteraria si confondono. La storia nazionale e le storie personali si ibridano, si arricchiscono, si svelano. Il cammino di conoscenza promosso da questo testo incentrato sullo spazio ci consente di capire, di riflettere, di cambiare, di migliorare le proprie condizioni e di interpretare meglio i propri luoghi e di riflesso noi stessi.

Si consiglia anche la lettura di altri testi che riflettono sui luoghi: Vento forte tra Lacedonia e Candela di Franco Arminio e Pane di pietra di Vito Teti. Entrambi propongono una rivisitazione e una riconsiderazione delle zone dell’entroterra, definite da Francesco De Sanctis, “terre dell’osso”, contraddistinte da fame, da privazioni secolari, da emigrazione nonostante la suggestiva bellezza di certi paesaggi naturali o la meraviglia di siti artistici e archeologici. I luoghi, come ci ricorda l’antropologo Vito Teti, lasciano tracce e memorie soltanto se qualcuno va a ricercarle, altrimenti restano muti o rumorosi, vuoti o pieni, senza che lo comunichino. Il senso dei luoghi deve essere rivissuto e rivisitato attraverso la scrittura e la memoria, per proporre nuove narrazioni e più solide consapevolezze rispetto al nostro bisogno identitario. I luoghi sono tempi raggrumati, e riflessione e introspezione sono fondamentali per rintracciarne l’essenza. Si può anche individuare un altrove negli spazi che si abitano da sempre. Spesso il borgo nativo diventa il campo delle ricerche di chi vive quei luoghi e ha deciso di non lasciarli. Tra l’Ottocento e il Novecento, il folklorista prima, il fl%u1EADner poi, ripercorrono le strade e i luoghi della propria quotidianità, filtrando la realtà attraverso una serie di strumenti descrittivi e narrativi che consentono loro di scoprire e di coglierne i significati più reconditi. Il fl%u1EADner, difatti, scopre i propri luoghi, li interroga, li racconta.

Questi tre testi ci insegnano che spesso la distanza geografica non corrisponde alla distanza interiore. Sguardi da lontano e sguardi da vicino possono cambiare la narrazione e la scrittura, fornendo ricchezza di vedute e di prospettive. Grazie alla lettura, e all’introspezione da essa favorita, si può errare e scoprire anche da fermi, si può fare i conti con il proprio io, con i propri spazi, anche quelli che portiamo dentro, quelli che scegliamo o siamo costretti ad abitare. Questi tre autori ci spronano a conoscere i nostri luoghi per meglio conoscere a affrontare il nostro tempo. Il borgo natìo diventa il campo delle proprie ricerche, in cui fioriscono studi, esplorazioni, documentazioni, di scoperta della diversità e dell’alterità dell’endotico, che si riveleranno cruciali per la percezione di sé e degli altri. Ogni spazio è caratterizzato da ibridazioni, conflitti, elaborazioni di nuove dinamiche identitarie, in cui si riflette sul proprio territorio, sui territori di frontiera, sul disagio, sulla sofferenza, sull’inquietudine, sulla propria capacità di mettersi in gioco e confrontarsi con una molteplicità di esperienze. Si studia lo shock culturale, l’emigrazione con i suoi effetti su chi parte e su chi resta, sull’abbandono dei paesi e sulla comparsa di questi luoghi che si riempiono di nuove figure. Si scoprirà che lo shock culturale non colpisce soltanto chi parte ma anche chi resta generando confusione, conflitto, lacerazioni identitarie, in luoghi vicini che ci possono sembrare sempre più lontani, più estranei, più irriconoscibili. I modi di accostarsi ai luoghi e alle persone cambiano e cambiano la narrazione e la scrittura, che dipendono dalla partecipazione, dalla distanza geografica e da quella interiore. Il desiderio dell’altrove non presuppone soltanto un viaggio fisico ma un’esperienza mentale, che consenta di utilizzare, alternativamente, e a volte, contemporaneamente uno sguardo presbite e uno sguardo miope.

Sabrina Tirri
Lacci, di Domenico Starnone (Torino, Einaudi, 2014)
Grande interesse ha suscitato il libro Lacci dello scrittore napoletano Domenico Starnone, vincitore del Premio Strega nel 2001 e autore di diversi libri da cui sono stati tratti film e serie televisive. Edito nel 2014 da Einaudi, il romanzo è strutturato in tre libri, per un totale di 133 pagine; il più cospicuo è rappresentato dal libro centrale con tre capitoli, a differenza del primo e del terzo che ne contano soltanto uno. La storia, avvincente nella sua spietatezza, è  molto attuale ed è racchiusa in tre momenti significativi: l’innamoramento di un uomo sposato Aldo per una giovane donna, Lidia; l’abbandono della propria moglie, Vanda, e dei suoi due figli, Sandro e Anna e il ripensamento/il ritorno. La ricostruzione dell’intera vicenda familiare avviene attraverso tre voci; si esordisce con quella della moglie, per passare a quella del marito e terminare con quella dei figli. Da queste voci – ognuna aggiunge un tassello in più a quanto viene detto dalle altre – risaltano emozioni negative, stati di conflittualità relazionali ed emozionali, conseguenze inevitabili di una crisi matrimoniale. Intense e profonde le parole che Vanda rivolge al marito nelle lettere che gli indirizza. Nella frase iniziale, con cui si apre il romanzo, che corrisponde all’incipit delle prima lettera inviatagli, si legge tutta la rabbia che si prova di fronte ad un improvviso abbandono e la necessità di avere delle spiegazioni: “Se tu te ne sei scordato, Egregio Signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”. Traspaiono in questa frase dei toni di vicinanza e di distanza, gli stessi che si sovrappongono in tutte le pagine del romanzo: la vicinanza, espressa dalla 2a persona singolare, indica quel senso di familiarità, di conoscenza, di confidenza che c’è tra i due coniugi mentre l’appellativo “Egregio Signore” indica la distanza, la lontananza, la freddezza, l’estraneità che si sono create. La donna è sconvolta, non si dà pace e non riesce ad accettare il cambiamento, esige delle spiegazioni che il marito non riesce, o meglio non vuole darle, come se lei non fosse nessuno e lui potesse sottrarsi, dall’oggi al domani, agli impegni e alle responsabilità assunti in tempi precedenti. Aldo è fondamentalmente un cinico, un egoista, un meschino che non sembra comprendere la gravità delle sue azioni, affronta tale situazione con una certa leggerezza, superficialità, e non riesce a fuggire dallo stato di ebbrezza “che lo avvolge[..] come una tuta ignifuga”. Se il matrimonio e la famiglia in un primo momento sono concepiti da lui come una forma di indipendenza, di crescita, ora invece sono visti come simboli di arretratezza, e il rinunciare alla nuova fiamma, per non far torto alla moglie, gli sembra troppo anacronistico. È un segnale di una forte crisi di valori o di un loro rovesciamento: non si riconosce più ciò che è giusto da ciò che è errato, cosa realmente va difeso; i ruoli e i modi di vedere sono ribaltati in maniera radicale. Lo stare con una donna molto più giovane di lui gli procura benessere, felicità, libertà, spensieratezza, mentre diventano artificiali e innaturali gli incontri con i figli. Il riallacciare il rapporto con Vanda prende corpo quando Aldo fa un’autoanalisi della sua condizione: da un lato c’è la sua giovane amante, ormai adulta, molto apprezzata sia intellettualmente sia fisicamente, che non lo guarda più con gli stessi interessi, e dall’altro c’è la sua famiglia dilaniata dalla sofferenza e dal male. Il ‘nodo’ familiare ricostituitosi, apparentemente stretto e forte, nasconde una serie di disordini, di fragilità e di rotture che aleggiano nella consuetudine e negli spazi della casa e sono evocati ogni volta che viene pronunciato il nome del gatto. È il marito a scegliere il nome del felino e la moglie ne comprenderà il reale significato per caso, e quasi ormai ottantenne, al rientro da una vacanza: la casa è sottosopra, e nello studio, che raccoglie le tracce del loro passato, il vocabolario è aperto alla lettera L. “Labes” significa rovina, disastro, vergogna etc. A devastare la casa sono i figli della coppia, i quali in qualità di persone più fidate, più prossime, avrebbero dovuto invece garantirne la custodia e la salvaguardia. Cresciuti invece nel disamore, scatta in loro qualcosa di crudele, una voglia di riscatto nei confronti del male e dell’infelicità ricevuti. Vogliono ripulire la casa da un passato che non li ha mai abbandonati – il padre continua infatti a vivere con i ricordi di Lidia, tenendo nascoste delle foto in un cubo blu – e lo fanno distruggendo le stanze della casa in cui sono cresciuti e portando via il gatto a cui la mamma è molto legata. Da vittime diventano carnefici perché troppo stanchi di una vita fatta di ipocrisia, di finzione e di disaffezione, e si riappropriano della propria libertà facendo riaffiorare il disordine reale che sottostà a quell’ordine apparente, che soffoca e non fa vivere in maniera sana ed equilibrata.

Generoso Vella
Hiperionidi, di Marco Parisi
Marco Parisi  racconta una Grecia quasi inedita, diversa, poco conosciuta, un mondo affascinante caratterizzato da mistero, avventura e contraddizioni. Un romanzo che nasce da uno studio appassionato e approfondito della mitologia classica che l’autore attualizza e ripropone con un linguaggio di estrema chiarezza e semplicità.
I personaggi di Parisi reagiscono alle avversità con sensibilità, grande umanità e ricchezza interiore. Dimostrano di saper superare momenti di disagio e di discriminazione restando uniti e con strumenti come  l’amore, la tolleranza e il rispetto per gli altri.
Sfidano il mondo con intelligenza e intraprendenza  e affrontano questioni che appartengono alla contemporaneità, sviluppate dall’autore con saggezza, delicatezza e dolcezza. Il romanzo di Parisi propone l’amore come forza di tutte le cose e la donna al centro di tutto. Una bella lezione d’amore e di eroismo che fa di questo libro qualcosa in piu’ di un semplice romanzo dove vibrano le corde del buon senso ed emerge un forte attaccamento alla famiglia e ai sentimenti veri.